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Peter Whitehead, poesia cinema e rivoluzione

Peter Whitehead, poesia cinema e rivoluzione

Cinema Con la morte dell’artista inglese se ne va un pezzo della controcultura, la sua parte più libera e radicale. Figura culto del doc dei ’60, ha filmato Ginsberg, Ferlinghetti, Jagger, Pink Floyd e Rudd

Pubblicato più di 5 anni faEdizione del 15 giugno 2019

Con la morte di Peter Whitehead (8 gennaio 1937- 10 giugno 2019), un intero pezzo della controcultura se ne va, la sua parte più libera, più radicale, più creativa. Peter Lorrimer Whitehead ha esercitato i suoi vari talenti in un numero di discipline che non ha equivalenti se non in Jean Cocteau: è stato cineasta, romanziere, compositore, pittore, artista visivo, vasaio, allevatore di falconi, pioniere della cybercultura… e ancora editore, traduttore delle sceneggiature di Jean-Luc Godard – per il quale aveva un culto particolare fin dagli anni sessanta.Nato a Liverpool, Whitehead proveniva da una famiglia operaia molto modesta, ma grazie a un programma educativo voluto dal governo laburista dell’epoca di cui beneficiò e a un ottimo rendimento scolastico, ottenne una borsa di studio che gli consentì di frequentare Cambridge, per poi entrare alla Slade School of Fine Art di Londra. È qui che si appassionò di cinema, in un dipartimento appena creato dal cineasta Thorold Dickinson, il primo di cinema del Regno Unito.

PER GUADAGNARSI da vivere, comincia accettando un film su commissione, The Perception of Life (1964), dedicato agli strumenti della televisione sviluppati dalle scienze esatte. Lavora per la tv pubblica e per l’industria musicale emergente del pop, divenendo un pioniere di quello che sarebbe poi stato battezzato video clip. Tra i suoi brevi film musicali troviamo: I’m Not Sayin’ di Nico (1965), – Lady Jane (1966) e Let’s Spend the Night Together (1967) per i Rolling Stones, senza dimenticare, nel 1966, Have You Seen Your Mother, Baby nella famosa «Drag Version » con gli Stones vestiti da donna. È uno dei primi ad aver filmato Jimi Hendrix (Hey Joe, 1966), Eric Burdon & The New Animals (il magnifico When I Was Young, 1967). Il suo primo gesto d’autore consiste nel documentare una serata di poesia con Allen Ginsberg e la Beat Generation al gran completo, che trasforma un recital al Royal Albert Hall in una manifestazione contro la guerra in Vietnam. Con la bellezza aspra e franca del 16mm bianco e nero, Wholly Communion (1965) costituisce la piattaforma programmatica dell’opera a venire: mettere la poesia al servizio della rivoluzione, mettere la rivoluzione al servizio della poesia.

UN LATO appassionante del lavoro di Peter Whitehead consiste nel documentare l’opera di altri artisti: Charlie is my Darling (1965) è la testimonianza di un tour degli Stones in Irlanda, Benefit of the Doubt (1966) di una tournée negli Stati uniti di US, opera militante di Peter Brook contro la guerra del Vietnam, Led Zeppelin Live (1970) è un concerto al Royal Albert Hall che, con due semplici cineprese 16mm e senza luci aggiuntive, offre forse la migliore registrazione di tutti i tempi di uno spettacolo rock. Completano questi ritratti: Tonite Let’s All Make Love in London (1967), il cui titolo – riprendendo una frase di Allen Ginsberg in Wholly Communion, cattura lo spirito del tempo. Come in una fotografia di gruppo, vi si trovano: Mick Jagger, Julie Christie, Michael Caine, Lee Marvin, Andrew Loog Oldham, Alan Aldridge, David Hockney, Vanessa Redgrave, Eric Burdon, Roman Polanski e Sharon Tate… Whitehead riesce con il montaggio a trasformare quella che altrimenti sarebbe stata una galleria di pochi noti in un debordante saggio di energia sullo Zeitgeist della swingin’ London. London ’66 – Pink Floyd (1967), doveva essere il trailer di Tonite Let’s All Make Love in London, completata risulta un dittico magistrale: un ritratto di Syd Barret e i Pink Floyd al lavoro, mentre eseguono Interstellar Overdrive; poi la descrizione dell’happening «14 Hours Technicolor»: trenta minuti di celluloide che racchiudono tutto il genio creativo e libertario dei sessanta.
Con The Fall (1967), Peter Whitehead rincorre la stessa impresa sul terreno della creazione contemporanea in scena a New York (Rafael Montanez-Ortiz, Arthur Miller, Robert Rauschenberg…). Questa volta, arricchisce la scrittura di una dimensione autobiografica che, sotto l’egida di Albert Camus, trasforma l’inchiesta in ricerca esistenziale: al tempo stesso descrizione di un amore (per Alberta Tiburzi), esplorazione di un momento di crisi storica (gli assassinii di Martin Luther King e Robert Kennedy), e l’unificazione delle forze vive della rivoluzione (gli studenti della Columbia in lotta, intorno a Stokely Carmichael e Rap H. Brown, tra i quali troviamo delle grandi figure politiche della loro generazione: Tom Hayden, futuro deputato, Mark Rudd, futuro membro dei Weather Underground). Trovare un senso alla propria vita, cambiare il corso della storia: The Fall costituisce anche un capolavoro speculativo che manifesta l’esistenza di un incrocio nel quale convergono l’esistenzialismo francese e il marxismo-leninismo internazionale, crocevia frequentato da tutta una generazione di militanti. Nel 2016, Whitehead ritorna sull’esperienza eccezionale di questo film nel libro The Fall Dossier (Hathor Publishing), firmato anche da Alberta Tiburzi perché costituito in gran parte dai rispettivi diari – la sperimentazione filmica si prolunga in una stupefacente sperimentazione letteraria. Con Daddy (1973), girato con e per Niki de Saint-Phalle, lavoro pionieristico nel campo di quello che poi si sarebbe chiamato il queer, Peter Whitehead trasforma il cinema in happening fantasmatico, come se un film potesse essere una psicoanalisi selvaggia della condotta a vista.

ALLA DOMANDA: qual è per lei il film più sovversivo di tutti i tempi? Whitehead risponderà nei Cahiers du Cinéma: «Posso testimoniare di un film che ha totalmente sovvertito il proprio autore. Ho girato Daddy nel 1973, con Niki de Saint-Phalle. Tra le altre cose ha fatto arrabbiare la psicanalista di Niki ed è stato applaudito da Godard e da Lacan alla prima a Parigi, il primo febbraio 1974. Ma soprattutto, Niki ha dichiarato che era il film di una donna». Sintesi autobiografica e riflessiva di questo periodo così prodigo di rivoluzioni formali, Fire in the Water (1977), attraverso la figura del cineasta che monta nuovamente i suoi propri film, si interroga sulla traiettoria compiuta fino a quel punto, sulle speranze storiche e le sconfitte politiche, mentre al di fuori della campagna dell’artista (Nathalie Delon) approfondisce un rapporto lirico con la natura fino allora inedito per Whitehead e che cionondimento diventerà essenziale più avanti.

ALLA FINE degli anni settanta, Whitehead viaggia in Afganistan, in Iran, in Marocco e in Alaska fermandosi in Arabia Saudita per allevare falconi. Cacciato dopo lo scoppio della prima guerra del Golfo, ritorna in Europa all’inizio degli anni novanta. Nel 2006, inizia a concepire Terrorism Considered as One of the Fine Arts (2009), adattato dall’eponimo romanzo pubblicato nel 2007. Attualizzando l’insieme delle questioni trattate da The Fall nel 1967, Terrorism sviluppa un requiem visivo i cui motivi intrecciano dimensioni politiche, ideologiche, tecnologiche e psichiche dell’immagine quali quelle che hanno caratterizzato la prima decade del secolo XXI. In permanente dialogo con il lavoro di Jean-Luc Godard, l’opera di Whitehead costituisce anche un omaggio ad un maestro comune ad entrambi: Orson Welles. Meditazione critica e funebre, Terrorism evolve a partire da un crimine politico, l’assassinio di Fernando Pereira, fotografo del Rainbow Warrior affondato dai servizi segreti francesi nel 1985 e al quale il film è dedicato. «Il governo, è solo la fazione vittoriosa», concluderà il film seguente: Un film (3’, 2009) girato nell’ambito del progetto collettivo Outrage et Rebellion. Coraggioso politicamente, Terrorism, lo è soprattutto formalmente. Il montaggio, che ha richiesto più di un anno e lo ha portato al limite della follia (a suo dire), conteneva una sfida: ogni inquadratura doveva avere almeno sette significati diversi, un lavoro simbolico che lo apparenta più alla Torah o alla Divina commedia che alla storia del cinema. Per condurre l’impresa e esplorare Vienna, la città-mente, ci voleva una figura d’ermeneuta, Michael Schlieman, ombra dell’archeologo che scoprì i siti di Troia e di Micene, e uno dei numerosi «ego» di questo il regista è prodigo di bei motti: «sogno quindi sono, dubito quindi filmo». Una delle grandi gioie di Whitehead è stata quella di sapere che due inquadrature di Terrorism figurano nel Livre d’Image (2018) del suo amato Jean-«Lucifero» Godard, come lo aveva soprannominato per l’importanza e l’incanto che aveva esercitato sulla sua vita.

DALL’ASTRAZIONE plastica alla registrazione documentaria, dall’investigazione fisica all’affermazione polemica, dal saggio autobiografico alla dimostrazione sulla potenza del montaggio, dal lavoro grafico e testuale alla rivendicazione militante, dall’uso magistrale della pellicola all’integrazione fertile del video in un film, la sua opera compie una straordinaria sintesi aperta a diverse dimensioni del cinema di avant-garde. Molto materiale è ancora da ritrovare, scoprire, pensare: in particolare i reportage girati per la televisione durante gli anni sessanta giacciono negli archivi. I romanzi, i saggi, le composizioni musicali, collage, scambi epistolari meriterebbero di essere studiati. Il movimento di riscoperta di questo immenso artista è cominciato dal suo ritorno in Europa, diversi film (di Christopher Petit & Iain Sinclair, Chaab Mahmoud…), opere, ricerche universitarie sono dedicati a lui. Tra i lavori più importanti, ricordiamo quello di Paul Cronin, che ha dato luogo al film In the Beginning Was the Image: Conversations with Peter Whitehead (2006); la prima monografia Peter Whitehead, Cinema, Musica, Rivoluzione, scritta da Laura Buffoni e Cristina Piccino (2008); l’indispensabile numero della rivista Framework, codiretto da Drake Stutesman, Paul Cronin & James Riley (2012).

MA NULLA forse, nella loro discrezione, è più emozionante dei film dedicati in tutto e in parte a Whitehead dal suo assistente e amico di sempre, del quale l’ammirazione e l’affetto non sono mai mancati, nonostante la lontananza geografica. Parliamo del cineasta e mastro-vetraio Anthony Stern: Nothing To Do With Me (1968), intervista senza domande dove Whitehead improvvisa in tutta libertà; Get All That, Ant? (2016), ritorno sugli archivi de ’60 e ’70, dove la presenza decisiva di Whitehead nella traiettoria personale di Anthony Stern così come nella storia collettiva delle arti si manifesta con eleganza e con amore.
(traduzione dal francese di Eugenio Renzi)

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