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Péter Szondi, una difesa del tragico nella lingua dei carnefici

Péter Szondi, una difesa del tragico nella lingua dei carneficivaso Scheurich Floor

Lettere inedite L’ebreo ungherese Péter Szondi, che la «Teoria del dramma moderno» aveva consacrato come critico tra i più originali, si batte per riportare alla coscienza tedesca ciò che anche i suoi esponenti più lungimiranti, tra i quali il direttore della Suhrkamp Sigfried Unseld, si ostinano a ignorare

Pubblicato circa 5 anni faEdizione del 4 agosto 2019

Peter Szondi a Siegfried Unseld,
Zurigo, Suhrkamp Verlag,
10 settembre 1960

Caro signor Unseld, (…)
Alla sua insistita critica secondo cui il lavoro è troppo impersonale sfugge, secondo me, che io non sono un filosofo e che non è mio compito, e forse neanche mio diritto, offrire una mia concezione del tragico in questo mondo. Il mio tema è la filosofia del tragico e la poesia tragica. Lei ha forse nutrito questa speranza in ragione del titolo Il tragico, ma fraintende il mio scopo se crede che io abbia una pretesa del genere (e con esso – si j’ose dire – anche il valore del lavoro) e anche ampliando i commenti non vorrei derogare, su questo punto, al principio ascetico che ho scelto proprio avendo in mente la letteratura dei germanisti filosofanti.
A questo si connette anche la sua critica al commento su Schelling. Di sicuro non è uno dei più riusciti. Ma ritengo che non si tratti di una semplice parafrasi del testo, bensì di un commento che spiega il contesto e mette in luce la struttura dialettica (rispettando quello che nell’introduzione è indicato come il compito dei commenti). Non è forse un caso che lei insista continuamente a chiamare i miei commenti descrizioni: è precisamente quel che non vogliono essere, se lo volessero sarebbero naturalmente insufficienti. Certo, capisco bene che la frase «in tal modo il tragico è definito al contempo come fenomeno dialettico» la disturbi: l’indicazione è troppo chiara, la trama concreta è bucata, ci si vede attraverso. Ma quando la definisce «un’affermazione non stringente» manca di vedere che la tesi è spiegata nelle frasi successive. La successione affermazione-spiegazione ricorre continuamente nel libro, ma forse qui, all’inizio, le è sfuggito.
Oltre che della concezione personale lei avverte la mancanza di una trattazione ulteriore, quella della dialettica di Hegel. Tuttavia neppure questo era il mio compito. Naturalmente ne avrei parlato se avessi scritto solo del tragico in Hegel. Ma nel mio panorama di definizioni del tragico ho ritenuto meglio rinunciare a ogni excursus.
Lo stesso vale per Goethe. Lei sente la mancanza della «vera (?) concezione goethiana del tragico». La si dovrebbe estrapolare dalle sue opere (ma su questo ci sono saggi e libri). Il mio tema era però la definizione goethiana di tragico quale è tramandata da poche osservazioni, e ritengo di aver dimostrato, con la mia analisi della dialettica di dovere e volere e con il rinvio al momento dell’uno nella recensione del Carmagnola, qualcosa di più che non la semplice insostenibilità dell’estraneità di Goethe al tragico.
Su altri punti trovo che le sue constatazioni siano indovinate, ma non capisco la critica a cui conducono. È giusto dire che la tesi della struttura dialettica del tragico attraversa tutto il libro e comporta il rischio della monotonia. Ma l’eccesso di dettagli, che costituisce la sua seconda critica, dovrebbe proprio allontanare questo rischio. Com’è possibile che il fenomeno ne sia sepolto se poi ogni dettaglio nella sua formulazione dialettica (nella formulazione della sua dialettica) rimanda al fenomeno stesso? Del resto il lavoro è organico e unitario proprio perché ogni sezione e anche ogni singola analisi sostiene la medesima tesi. Altrove lei definisce i commenti «troppo generali» e le analisi «troppo concrete». Non capisco il «troppo». La legge formale dell’intero lavoro prevede proprio che i commenti e le analisi restino attinenti al tema e quindi che i primi siano astratti e le seconde concrete. Il fatto che durante la lettura della sua lettera io sia stato costantemente tentato di prendere due delle sue critiche per dei complimenti mi dimostra quanto la pensiamo diversamente su questi problemi: che i «testi dei commenti carichino, per così dire, di elettricità» e, in modo ancor più indicativo: che io «interpreti Schelling per mezzo di Schelling» (mentre non starei bene con me stesso se il mio lavoro si distinguesse per «aspetti e prospettive più ampi»).
Caro signor Unseld, fin qui ho parlato solo delle sue critiche e di lei stesso soprattutto laddove io devo affermare criticamente la mia posizione. Nella speranza che potremo intenderci personalmente senza questo bianco e nero della polemica la saluto cordialmente,
Peter Szondi
Traduzione di Luca Crescenzi

di LUCA CRESCENZI
C’è stato un tempo, tutt’altro che lontano, in cui un brillante editore e un geniale critico letterario potevano contendere l’uno con l’altro per un libro sul tragico e, implicitamente, per la questione stessa del tragico. Quest’ultimo, del resto, era stato fin dall’inizio del secolo l’argumentum crucis della cultura europea e tedesca in particolare. Le poetiche e le filosofie del fine secolo avevano cominciato la loro campagna contro lo «stupido ottocento» proprio a partire dall’idea che il positivismo, lo storicismo e anche il materialismo dei decenni precedenti avessero cancellato la realtà del tragico dal sentimento moderno dell’esistenza e si erano affidate a Nietzsche, a Schopenhauer e, risalendo più indietro, a Hölderlin per rimetterlo al centro di una visione del mondo segnata dal conflitto e dalla morte come antagonisti di un razionalismo fin troppo fiducioso e aproblematico. Il prosieguo del secolo avrebbe dato ragione ai critici del passato e avrebbe dimostrato al mondo la profondità ineludibile del nesso di tragedia e storia.
Peter Szondi, ebreo ungherese, deportato a quindici anni con la famiglia nel campo di concentramento di Bergen-Belsen e rilasciato in Svizzera dopo una lunga trattativa fra il governo tedesco e il capo del comitato di salvataggio degli ebrei ungheresi Rudolf Kasztner, riconosciuto a metà degli anni cinquanta grazie a un solo libro – la Teoria del dramma moderno – come il più originale e innovativo dei critici di lingua tedesca, sapeva meglio della maggior parte dei suoi contemporanei che il tragico rappresentava il rimosso della cultura europea e l’aveva scelto come tema della sua abilitazione con il proposito di opporsi alla filologia filosofeggiante e percorsa da un pretenzioso e consolatorio heideggerismo dei suoi tempi (il suo epistolario contiene molte osservazioni contro la critica «demagogica» del suo maestro Emil Staiger e di alcuni allievi).
Dal canto suo Sigfried Unseld, direttore della casa editrice Suhrkamp, la più innovativa e dinamica delle realtà editoriali del dopoguerra tedesco, legata al Gruppo 47 e ai «francofortesi» (dai quali Szondi, studioso di Benjamin e amico di Adorno, era stato, per così dire, reclutato) era stato compagno di scuola di Hans Scholl, il leader della «Rosa Bianca» giustiziato da Hitler, era sopravvissuto alla guerra e aveva sposato la causa della rinascita democratica della Germania. Il libro di Szondi sembrava fatto apposta per dividere i due.
La finalità di alcuni importanti studi apparsi negli anni Sessanta era stata infatti quella di sottrarre la storia del pensiero e della letteratura tedesca alle semplificazioni e alle strumentalizzazioni del nazionalsocialismo. Ma si trattava anche di riportare alla luce ciò che era stato dimenticato e lasciato indietro dalla cultura dinamica e modernista degli anni della ricostruzione. Il decennio del boom economico europeo, il ritorno del benessere diffuso nella Germania adenaueriana e post adenaueriana, tendevano ad occultare il passato e Szondi – per il quale il tragico avrebbe seguitato a costituire il sentimento di fondo di un’esistenza conclusa dal suicidio nel 1971 – si batteva per riportare alla coscienza tedesca ciò che essa si ostinava a ignorare anche nelle espressioni più aperte e lungimiranti.
C’è un punto della lettera che fa capire quale distanza separasse non solo Szondi e Unseld, ma i figli della Shoa dai rappresentanti della nuova Germania. Si trova lì dove Szondi difende la sua visione del carattere dialettico del tragico. Szondi in realtà concepisce tale natura del tragico come l’effetto dello scontro incidentale di due poli contrapposti che non riescono più a restare separati. È una formula che Szondi ricava da Hebbel nella parte più bella e sofferta del libro; ma è una formula che rispecchia perfettamente la condizione dell’ultima grande generazione di intellettuali ebrei in Germania, gli eredi diseredati della simbiosi ebraico-tedesca nella Germania del benessere e dello «slancio in avanti». È la condizione di chi vive – come scriveva l’amico Paul Celan – nella lingua dei carnefici. Una radice esistenziale del libro di Szondi che Unseld non poteva conoscere né riconoscere e che rende questa lettera uno dei documenti più incisivi contenuti negli archivi della casa editrice Suhrkamp.

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