High Numbers
High Numbers, ossia gli Who prima degli Who
Alias

Peter Meaden, una vita mod

Pagine In un libro la vita burrascosa del primo, storico manager degli Who. Vera icona della subcultura britannica, negli anni ha lavorato anche con altri artisti e fondato una label
Pubblicato 3 mesi faEdizione del 20 luglio 2024

Nei primi anni Sessanta il rock, soprattutto in Inghilterra, incominciò a dotarsi anche di aspetti strutturali. Le etichette investirono sul genere dopo il successo, a valanga, dei Beatles alla ricerca dei «nuovi Fab Four»; le band e gli artisti furono accalappiati da manager o sedicenti tali. Gli stessi che in non pochi casi fecero a brandelli i guadagni di giovanissimi ragazzi, perlopiù ventenni, totalmente ignari degli aspetti burocratico/legali, che si ritrovarono da un giorno all’altro in testa alle classifiche.

MESSI IN «RIGA»
Brian Epstein fu l’artefice del successo dei Beatles, quello che li mise «in riga», li rivestì, li indirizzò nella giusta direzione. Ma fu anche colui che dai guadagni della band prendeva il 25% pulito e che per anni ha costretto i Beatles a ritmi spaventosi, con tour massacranti, due album e diversi 45 giri ogni anno, interviste, film, filmati. Solo quasi alla fine del 1966 i quattro decisero di lasciare i palchi e i ritmi insopportabili, per dedicarsi solo alla composizione e alla registrazione.

I casi di sfruttamento delle band sono numerosissimi, soprattutto in mancanza di regole e legislazione precise. Negli stessi anni, all’alba dello «swinging decennio», Peter Meaden era uno dei personaggi più influenti della scena mod londinese appena nata, e proprio per questo era stato soprannominato «King Mod». Sempre presente nelle serate al The Scene, il locale per eccellenza dove si trovavano ogni weekend i mod locali, intuì la potenzialità, soprattutto numerica, della scena e, seguendo l’esempio dell’amico Andrew Loog Oldham, che si era accaparrato i Rolling Stones, e vedendo il successo di Brian Epstein con i Beatles, decise di trasformare gli Who, giovane band londinese di Shepherd’s Bush, nel gruppo «guida» dei Mod. «Li portai allo Scene, videro i mod e incominciarono a identificarsi con loro e a entrare nel mio mondo speciale».

Ai tempi la band suonava blues e rhythm and blues in maniera piuttosto ruvida ed energica. Meaden li presentò al Dj Guy Stevens (futuro produttore di London Calling dei Clash), uno dei personaggi più seguiti nel giro mod, soprattutto grazie alla sua collezione di rarissimi 45 giri, pressoché introvabili, che suonava nelle serate, che fece conoscere loro le ultime novità facendoli entrare sempre più nei gusti sonori dei mod.

La copertina di «King Mod. The Story of Peter Meaden, The Who and the birth of a British subculture», il libro di Steve Turner

L’ABITO GIUSTO
Meaden non si fermò qui. Rivestì i quattro componenti con abiti adatti, gli fece tagliare i capelli corti (con grande disappunto del bassista John Entwistle che se li stava facendo crescere da un anno per assomigliare ai Beatles) e cambiò il nome al gruppo: da Who a High Numbers (nel gergo mod i «numbers» erano gli aspiranti a un livello più alto, ossia a diventare, nella subcultura in Vespa e Lambretta, i «faces», chi cioè si distingueva e dettava lo stile).

Scrisse il testo per due brani, con chiari riferimenti al mondo mod, I am the Face e Zoot Suit e glieli fece incidere in un 45 giri. Il disco ebbe scarso riscontro (nonostante lo stesso Meaden avesse comprato parecchie copie per farli andare in classifica) ma lanciò la band nel business. Gli High Numbers tornarono a chiamarsi The Who, cambiarono manager e divennero nel giro di poco tempo tra le band più rappresentative della scena musicale inglese prima, e qualche anno dopo di quella mondiale con Tommy. Meaden non si perse d’animo e proseguì la sua carriera incominciando a seguire Jimmy James and the Vagabonds, gruppo di rhythm and blues, molto apprezzato dalla scena mod, facendogli incidere l’album New Religion e riuscendo a dar loro una buona visibilità. Meaden era affascinato dal mondo mod, dal loro modo di essere in un periodo ancora quasi «vittoriano» in Gran Bretagna. Ragazzi e ragazze così indipendenti, contro i valori tradizionali, contro il concetto di famiglia, contro il militarismo, contro il razzismo (furono i primi ad accettare senza problemi gli immigrati caraibici neri tra le loro fila).

Era un personaggio influente e ben voluto, un faro di stile. «Quello che mi interessava così tanto era l’unità del modism. Avevo intorno un’armata di 240/250mila giovani mod che mettevano a ferro e fuoco la costa sud dell’Inghilterra ogni weekend e andavano su e giù per la nazione. Era qualcosa come 250mila ragazzi rivoluzionari, come i Vietcong ad Hanoi dopo la caduta di Saigon». I mod erano, notoriamente, forti consumatori di droghe amfetaminiche, con cui allungavano a dismisura le nottate e i weekend tra bar e serate a ballare. L’esperienza di Meaden in questo ambito, lo portò ad avere anche una visione precisa e plausibile sulla fine della scena, numericamente parlando, tra il 1966 e il 1967 (in realtà non morì del tutto ma continuò a riproporsi in piccole comunità, soprattutto nel nord della Gran Bretagna): «Fu con l’Lsd. Le pillole Drinamyl incoraggiavano il movimento e la parlata veloce, Lsd, mescalina e peyote portavano a riflessione e introversione. La vita interiore diventò più importante delle altre attività».

Anche le band di riferimento come Who, Small Faces, Kinks, Action presero quella strada, allungarono i capelli, colorarono camicie, mente e visioni e lasciarono la vecchia immagine mod. Meaden continuò a muoversi nell’ambiente musicale, diventò manager della Steve Gibbons Band, lavorò con Captain Beefheart, fondò un’etichetta che, almeno dal nome, precorreva i tempi, la New Wave Records, per la quale uscirono alcuni 45 giri di scarso successo.

Purtroppo le antiche abitudini non lo abbandoneranno trasformandosi in abusi di vario tipo – droghe e alcol – ed esaurimenti nervosi; morirà nel 1978, a 37 anni, per un’overdose di barbiturici (quasi contemporaneamente a Keith Moon, il compianto batterista degli Who, e con modalità simili). Qualche anno prima il giornalista Steve Turner lo era andato a scovare a casa dei genitori, dove viveva confinato da tempo con i suoi fantasmi, per una lunga intervista sul New Musical Express, in cui alternava lucidità a momenti piuttosto confusi. È in quella occasione che conierà la frase riassuntiva e pluricitata a proposito dei mod: «Essere un mod è un aforisma per indicare un modo di vivere chiaro e pulito in circostanze difficili». Ma tra i numerosi contenuti della chiacchierata ci sono interessanti osservazioni su quanto quella subcultura abbia influenzato la musica e la società inglese. Ricordava: «Quanti ambasciatori del rock inglese sono stati direttamente influenzati dal mondo Mod: Who, Rod Stewart, David Bowie, Stones, Small Faces, Animals, Georgie Fame, Julie Driscoll, Brian Auger, Zoot Money, Steve Winwood, Eric Clapton, Kinks, Marc Bolan, Jeff Beck, Robert Plant, Jimmy Page, Elton John, Anddy Summers, Bryan Ferry».

Ovviamente essendo la dichiarazione del 1975 non poteva certo menzionare Jam e Paul Weller, Oasis, Blur, Britpop e decine di altri personaggi successivi.

L’intervista è anche parte di un libro molto interessante per i cultori delle subculture, da poco pubblicato in Inghilterra dallo stesso Steve Turner: King Mod. The Story of Peter Meaden, The Who and the birth of a British subculture (edito da Red Planet) in cui si ripercorre in dettaglio la vita di Meaden e la nascita della scena mod. La storia amara di un personaggio che poteva essere un riferimento per intere generazioni ma che resterà travolto da se stesso. Un libro che con quello dell’amico Andrew Loog Oldham, Stoned, copre al meglio un periodo ancora oggi così stimolante, attuale e affascinante. «Essere un mod non era solo essere al massimo di moda e stile, era anche conoscere le migliori canzoni, i club, i bar, le boutique, i trend e le feste. Perdere le attività di un weekend significava essere tagliato fuori, il peggiore peccato che potesse commettere un mod. Non c’era nostalgia, i mod vivevano esclusivamente nel presente con uno sguardo attento al futuro».

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