Gli ammonimenti di Ken Loach compaiono all’inizio e alla fine del nuovo documentario di Peter Marcias Uomini in marcia presentato alla Festa del Cinema di Roma. Rappresentano nette linee di demarcazione, punti fermi nel flusso continuo di una ideale manifestazione di massa che dura da oltre un secolo e investe varie generazioni di lavoratori, nel film in particolare minatori sardi del Sulcis Iglesiente: «Pensavamo che avremmo vinto, se non subito, un giorno…ma ora non abbiamo più questo lusso del tempo» dice Ken Loach.

L’epoca dei grandi scioperi di massa in difesa del lavoro appartengono a un passato che ha qualcosa di mitologico, eppure è il passato recente: il materiale di repertorio ci riporta alle lotte del secolo scorso, ma il collegamento con l’attualità è inevitabile.

Marcias inizia la sua ricerca dalla «Marcia per lo Sviluppo» del Sulcis Iglesiente, partita il 19 ottobre 1992 da Teulada, a Cagliari, a Civitavecchia, raccogliendo sostegno e solidarietà in tutti i paesi attraversato e giunta a Roma (sotto una pioggia battente, ricordano) l’8 dicembre per difendere il posto di lavoro e lo sviluppo della Sardegna.

All’epoca nel polo industriale minerario sardo (bauxite, piombo, carbone, alluminio e tutto l’indotto) si contavano 21mila disoccupati e 14 mila in cassa integrazione.

Le analisi di Gianni Loy, docente di diritto del lavoro, accompagnano idealmente il documentario e i lavoratori nelle loro richieste, tracciando a commento dei reperti filmati una storia della conquista dello statuto dei lavoratori che arriverà solo nel 1970. Prima di questo il lavoro non è stabilito come un diritto ma percepito come una regalia del padrone, a dispetto di quello che è scritto nella nostra Costituzione che esalta il lavoro e il diritto di sciopero. Ma quello che è scritto nella Costituzione e nelle leggi non è detto che venga poi applicato, dice Loy, nostro dovere è impegnarsi a cambiare questo stato di cose.
Lungo la strada molti sono stati i caduti: «sparare sulla folla è stata una doverosa operazione di polizia» scrive il prefetto di Cagliari al ministro a proposito degli scontri dei minatori nei primi anni del dopoguerra, parlando di «elementi nomadi e randagi che aspettano solo l’occasione per sfogare l’innata brutalità e delinquenza». È l’epoca di Scelba: in un filmato lo sentiamo spiegare cosa sono i reparti celeri: una specie di la cavalleria lanciata al galoppo decisa a passare, dice, così fanno anche i reparti motorizzati. Così (tra i tanti) muore ammazzato dalle forse dell’ordine Francesco, il figlio di un contadino che, dopo aver fatto la guerra, essere stato fatto prigioniero in Germania e in Russia, aver passato tanti pericoli, tornato in Italia «e il governo italiano l’ha tolto di passo» per aver partecipato nel ’49 all’occupazione delle terre.

Le voci dei grandi sindacalisti si fanno sentire, tuona Di Vittorio («noi vogliamo progredire, qualcosa l’abbiamo fatta e avanzeremo»), Luciano Lama afferma la conquista dello Statuto dei lavoratori come frutto delle lotte sindacali unitarie, anche il papa Giovanni Paolo nella celebre immagine che lo immortala con il casco in testa arriva a incontrare i marciatori.

Il prezioso materiale di archivio serve a Peter Marcias per comporre un ritmo narrativo che conduce lo spettatore tra problematiche concrete, flusso storico, risultati del passato a non fermarsi alla funzione didattica: ogni frammento comunica azione e dolore, mentre si sistemano ordinatamente i fatti nella memoria ecco che il racconto riesce a farci avvicinare alle singole storie e darci la percezione del significato della dismissione. A creare allarme e mobilitazione anche per il futuro, come indicano le scene non pleonastiche dell’inquinamento (o meglio del disatro ecologico) e le parole del regista francese Laurent Cantet (Poiché c’è molta disoccupazione e non si vuole perdere il lavoro, si è pronti ad accettare tutta la violenza dell’ultraliberismo) e di Ken Loach che indica l’obiettivo: combattere il nuovo tipo di sfruttamento, l’essere diventati lavoratori senza diritti con l’unione dei sindacati di tutti i paesi per fronteggiare la gig economy che ha invaso tutta l’Europa: « Tutto è peggiorato, ciò significa che si è pronti ad accettare qualsiasi condizione di lavoro. Poiché c’è molta disoccupazione e non si vuole perdere il lavoro, si è pronti ad accettare tutta la violenza dell’ultraliberismo».