Peter Jackson, demiurgo della Terra di mezzo
Intervista Il regista giunto al capitolo finale de Lo Hobbit - quasi 600 milioni di dollari incassati finora - racconta gli anni dell’epopea tolkiana e le sue prossime storie
Intervista Il regista giunto al capitolo finale de Lo Hobbit - quasi 600 milioni di dollari incassati finora - racconta gli anni dell’epopea tolkiana e le sue prossime storie
Tre premi Oscar su nove nomination, un Golden Globe, una manciata di Saturn Prize dell’accademia di fantascienza, cavaliere al merito del’Ordine di Nuova Zelanda e per concludere una stella appena posata sulla walk of fame di Hollywood boulevard. Per Peter Jackson una meteorica carriera iniziata come nerd dell’horror indie fatto a mano nella sua nativa Wellington e assurta agli onori di Hollywood al pari di colleghi e collaboratori come Steven Spielberg, George Lucas, James Cameron e Guillermo del Toro. Soprattutto quasi vent’anni da demiurgo della Terra di Mezzo custode della mitologia fanaticamente seguita da milioni di adepti di JRR Tolkien.
Un ruolo prestigioso e difficile a cui ora dice addio con l’uscita del sesto film della serie Hobbit, La Battaglia delle Cinque Armate, che negli Usa ha trionfato al box office natalizio con 41,4 milioni di dollari- anche se non raggiungerà i 300 milioni – «racimolando» nel resto del pianeta quasi 600 milioni di dollari. Gli abbiamo parlato via Skype.
Ora che è arrivato al capolinea di questa epopea sente più orgoglio o sollievo?
Entrambi, direi. Anche se tutti si aspettano che mi senta triste perché non ci saranno più film sulla Terra di Mezzo, non è così. Un paio di anni fa forse sarebbe accaduto, ma ora mi sento orgoglioso. Mi spiego: il nostro mestiere è divertire la gente e anche se non riuscirai mai a soddisfare tutti, credo che con questa serie in particolare siamo riusciti a toccare il cuore soprattutto di molti bambini e giovani che mi auguro possano un giorno fare loro stessi dei film.
È stata un’«avventura» che l’ha tenuta impegnata per un lunghissimo periodo. Cosa le è rimasto dentro in particolare?
Ricordo la prima volta che ci siamo seduti con Fran (la moglie e coproduttrice, ndr) , diciassette anni fa, con Harvey Weinstein con la proposta che allora sembrava enorme di adattare lo Hobbit in un film e successivamente girare due lungometraggi tratti dal Signore degli Anelli. Chiaramente poi le cose sono cambiate, abbiamo cominciato con la trilogia degli anelli innanzitutto perché all’epoca i diritti dello Hobbit non erano disponibili. La trilogia di Tolkien è composta di tre libri per un totale di oltre 1200 pagine con descrizioni dettagliate e personaggi complessi. In confronto Hobbit è un unico esile volume, praticamente una fiaba per bambini scritta in prosa molto semplice, senza nulla della complessità della trilogia. Ma avendo già fatto i film «conclusivi» abbiamo preso la decisione di svolgere anche Hobbit nello stesso «spazio» narrativo, ampliandone l’adattamento per trarne una seconda trilogia.
Tutto per via di una questione sui diritti?
Se all’epoca fossimo riusciti ad acquisire subito anche i diritti del Hobbit avremmo fatto prima quel film ma sarebbe stata una versione più fedele al libro, cioè un testo per ragazzi di 8-9 anni. La storia non esisterebbe oggi come una trilogia completa che precede la Compagnia dell’Anello, sarebbe stato un unico film per bambini. Nella medesima mitologia Tolkien aveva ambientato due storie, una per i bimbi e una per adulti. Dato che per necessità noi abbiamo iniziato con l’adattare quest’ultima il tono di tutti sei i film è diventato più «adulto»
Fra i sei film ne ha uno che preferisce?
No perché non li considero mai dei singoli film. Certo ognuno deve funzionare anche «da solo» ma la realtà è che non ha senso giudicarli singolarmente. Questo Hobbit è la parte finale di un unico film di otto ore di cui avete visto le prime sei e rotte e di cui adesso vedete le ultime due ore e dieci. È ciò che accade quando si girano tre film uno dopo l’altro sullo stesso set – senza contare che questa «fine» non è che il preludio all’avventura degli Anelli. È stato un equilibrio delicato da gestire come film maker.
Torniamo ai diritti. Christopher Tolkien, il figlio dell’autore, non è mai stato entusiasta degli adattamenti vero?
No, addirittura credo avrebbe preferito che non fosse mai stato fatto alcun film. È una posizione diversa da quella di suo padre che i diritti cinematografici li aveva ceduti. Certo gli eredi hanno diritto alla propria opinione – e molti Tolkien più giovani, ci hanno sempre appoggiato. Molti di loro sono venuti anche in Nuova Zelanda e sono stati consulenti sui film. Cristopher è sempre stato molto protettivo dell’opera del padre e questo paradossalmente forse ci ha facilitato lasciandoci più liberi di interpretarla.
Crede sia più possibile ormai leggere quei libri senza associarli all’immagine che lei ne ha dato nei film?
È una domanda interessante e probabilmente ha ragione – anche se naturalmente non tutti al mondo hanno visto i film. La Harper Collins ha dichiarato che grazie ai film hanno venduto milioni di copie in più il che significa che i film sono complementari, anche perché i libri contengono molti più dettagli e mitologia e stile letterario dei film… Tolkien era un grande scrittore capace nei suoi libri di coinvolgere il lettore in viaggi fantastici anche a chi avesse in mente le mie immagini. Io stesso mi riprometto, magari fra qualche anno, di riprenderli in mano per rileggerli anche se sono certo che vi troverò un sacco di cose che rimpiangerò di non aver messo nei film.
A proposito di rimpianti, dopo i film dello Hobbit le viene mai voglia I ritoccare i primi tre con la tecnologia disponibile oggi?
Certo quando guardo oggi il Signore degli Anelli molti degli effetti mi sembrano molto rudimentali, artificiali. Ma quei lavori sono completi così come sono, anche se istintivamente uno vorrebbe sempre migliorarli come regista non si può continuamente continuare a fare lo stesso film. Ci sono altre storie che mi interessa raccontare
Per esempio?
Sia a me che a Fran interessa molto tornare girare delle storie neozelandesi. È da vent’anni, dai tempi di Heavenly Creatures (Creature del Cielo) che non facciamo un film ambientato nel nostro paese. Abbiamo un paio di storie che ci piacerebbe sviluppare – non c’è solo Tolkien al mondo e toccando ferro ci restano ancora da fare qualche film.
Torniamo all’Hobbit. Ha suscitato non poche polemiche la decisione di girare a 48 fotogrammi al secondo…
Credo meno con questo film perché rispetto ai primi abbiamo lavorato per dissimulare quell’effetto da telenovela tv dato dall’alto frame rate abbiamo imparato a impiegare meglio il mezzo. D’altra parte l’evoluzione è inevitable, 100 anni fa si giravano 16 fotogrammi al secondo. Fra 100 non so dirle come saranno girati ma le garantisco che su quegli schermi del futuro non ci saranno film a 24p, ne in due dimensioni. La tecnologia si evolve ed è inevitabile che venga impiegata al meglio da chi crea cinema. Non è una minaccia ma uno strumento e lo sarà sempre di più con quello che costano i film non potranno più venire realizzati se tutti guardano solo i propri telefonini.
Quindi un cinema sempre più ibrido?
Credo che diventeranno sempre più prevalenti le tecniche «immersive» come la realtà virtuale che permette di osservare immagini «dall’interno». Se non per i lungometraggi, allora in un primo momento per dei corti o per narrative video ludiche. L’obbiettivo è di abolire la rimozione fra immagine e spettatore come quella fra un quadro sul muro e gli avventori di un museo. Certo la sfida è di non farne una distrazione dalla storia e dai personaggi che necessariamente sono il cuore di una narrativa di due ore. Per ora nessuno ha trovato la soluzione ma credo che nei prossimi 5-10 anni vedremo sviluppi radicali in questo campo.
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