Le grandi penne entrate nel ‘canone’ della letteratura maggiore sono davvero così distanti dalle forme letterarie ‘di consumo’? Se lo chiedeva Peter Brooks in uno studio del 1976, che si rivelò uno di quei rari saggi capaci di tracciare prospettive nuove e ampie visioni d’insieme. Non ci sarà forse qualcosa che unisce le une e le altre, e che continua a sfuggire all’evidenza perché chi si dedica ai nomi illustri tende a sottovalutare, o ignorare tout court, il panorama minore che sta loro intorno, destinato alla dimenticanza futura, ma attivo e pervasivo nell’immediato? Da queste domande nasceva l’ampio, avvincente saggio che torna oggi nelle librerie per iniziativa del Saggiatore in un’edizione arricchita dalla bella prefazione di Mariolina Bertini, riproponendo la traduzione di Daniela Fink uscita a Parma nel 1985 col titolo L’immaginazione melodrammatica (pp. 320, euro 28,00).

L’originale aveva un sottotitolo: Balzac, Henry James, Melodrama, and the Mode of Excess che al lettore anglofono rendeva chiaro, fin da principio, come Brooks non intendesse parlare di opera lirica, ossia del ‘melodramma’ come lo intende il lettore italiano, bensì di mélodrame, genere popolarissimo nella Parigi ottocentesca, che appartiene al teatro parlato. La sua peculiarità era la costruzione di una vicenda piena di colpi di scena, di passioni estreme, come si potrebbe ritrovare in una moderna telenovela; la musica, che faceva capolino occasionalmente sotto il parlato (questa sovrapposizione in italiano si indica come melologo), funzionava come amplificazione della suspense, ma non era l’elemento centrale. Senz’altro il melodramma italiano ottocentesco non fu estraneo né a meccanismi analoghi, né alla diretta influenza dei mélodrames, da Pixérécourt in poi; Emilio Sala ha documentato già anni fa nel Valzer delle camelie (Edt, 2008) un caso esemplare, ricostruendo l’ambiente e le frequentazioni parigine di Verdi prima e durante la stesura della Traviata. Ma ciò di cui Brooks vuole occuparsi è il fenomeno tutto parigino del mélodrame, parola che si sarebbe dovuta riportare com’è per non generare nel lettore italiano l’equivoco di scambiarlo per l’opera.

L’interesse di Peter Brooks nasceva da un percorso a ritroso, il cui punto di partenza (e anche l’obiettivo finale) era l’analisi della narrativa di autori come Balzac, Dickens, Hugo, Dostoevskij, Henry James. Brooks si era reso conto «di usare ripetutamente l’aggettivo melodrammatico» per definire «il tipo di drammatizzazione a cui ricorrevano, in particolare, la stravaganza e l’eccezionalità di certe rappresentazioni e l’intensità dei dilemmi morali che assillavano la sfera più intima della coscienza dei personaggi». Fu così che, con lo scopo di approfondire Balzac, si immerse nell’esplorazione di un sottobosco di drammoni strappalacrime, sfornati a dozzine e sorretti da meccanismi teatrali di ammirevole fattura, studiati apposta per commuovere e tenere col fiato in sospeso. Lo stesso Brooks sa bene come catturare il lettore, perché mentre gli impartisce lezioni di strategia drammatica si diverte a ripercorrere e sintetizzare una serie impressionante di mélodrames, mostrando come romanzieri, drammaturghi (e aggiungerei anche librettisti) facessero man bassa di spunti e situazioni ricavate da questo repertorio.

Un primo merito del saggio di Brooks consiste quindi nel gettar luce su un capitolo importante della produzione parigina, andando per la prima volta seriamente a fondo di una serie di elementi: finalità etiche, sfondi storici, modalità di rappresentazione. Ecco allora scambi di persona, identità dissimulate, violenze raccapriccianti, virtù eroiche, rivalità accese, processi movimentati da imprevisti e colpi di scena: tutto un repertorio apparentemente consunto, in realtà rivitalizzato ogni volta da invenzioni inattese. Si sperimentano anche casi paradossali: come protagonista troviamo un personaggio muto, oppure un animale (un vero animale ammaestrato, non un attore travestito), oppure una figura sovrannaturale, persino un demonio. Per di più le vicende si reggono anche sul gusto del tableau, quindi di accorte disposizioni dei personaggi che in scena creano veri quadri in movimento. Non è quindi solo il dialogo a sostenere l’azione; i personaggi muti per esempio esigevano il ricorso sistematico alla pantomima e a una serie di enfatizzazioni gestuali, in cui Brooks vede anche un’allusione alle origini del linguaggio, tema molto attuale nel primo Ottocento. Le didascalie del mélodrame erano ampie e dettagliate, e non si limitavano a descrivere luoghi e movimenti, ma prescrivevano una precisa gestualità.

Del resto, Balzac è sempre attentissimo a cogliere gesti e attitudini dei suoi personaggi, a ‘rappresentarceli’; della gestualità si occupa al punto da «inventarsi una pseudoteoria», la  cosiddetta Théorie de la demarche, uno studio sperimentale sui movimenti corporei come specchio di reazioni occulte del pensiero, e dunque involontarie rivelazioni di pensieri sottaciuti.

L’importanza del mélodrame era già risultata evidente a Charles Nodier e a Théophile Gautier e, anzi, secondo Brooks (p.138) fu proprio il mélodrame ad applicare per primo, con trent’anni d’anticipo, le teorie esposte da Hugo nella Préface au Cromwell (1827). L’obiettivo di Brooks è individuare i residui, anzi, i consapevoli riutilizzi dei meccanismi ‘melodrammatici’ all’interno di una narrativa che aspira a un rango più alto di scavo psicologico e sociale, ma che al tempo stesso è ben decisa a catturare il lettore e dunque non esita a far proprie le strategie di una produzione inferiore per qualità letteraria, ma abilissima nell’organizzazione della vicenda. La letteratura saprà introiettare ciò che nel mélodrame aveva bisogno di visualizzazione, di retorica del gesto e dell’immagine; ma per trasmettere messaggi più profondi ha comunque bisogno di inchiodare il suo lettore alla pagina, e dunque all’intrigo, ai segreti della coscienza, ai misteri inconfessati, ai doppi fondi dell’anima.

Proprio da Balzac «osservatore e visionario» Henry James impara l’arte di raffigurare la realtà come enigma aperto, che poi via via saprà ripensare su un piano di ambiguità fantastica. In nome della capacità di polarizzare i contrasti, ridefinendo a un grado superiore di analisi sociale e psicologica i meccanismi ricavati dalle astute strategie del mélodrame, James antepone addirittura Balzac a Flaubert: Emma Bovary è indubbiamente «un temperamento romantico», ma non sono più affatto romantiche le sue avventure e si è perso il gioco emozionante della suspense. Lo stesso Peter Brooks argomenta le sue tesi come un consumato narratore: racconto e riflessione critica si intrecciano con passo incalzante, ripercorrendo anche il pensiero dei grandi scrittori francesi che già fiutarono il fenomeno ‘melodrammatico’ come serbatoio di soluzioni narrative da esplorare. La conclusione si affaccia sul primo Novecento, con Freud che trasforma in teoria l’esplorazione di quegli abissi dell’anima su cui il mélodrame si era retto, fornendo inesauribile materia ai maggiori romanzieri.