Un giovane stalliere accudisce tre cavalli uno grigio, uno bianco, uno baio. Dà loro la quotidiana razione di cibo. Da una cesta, che ne contiene un buon numero, pone innanzi ai destrieri dei bei pesci. Hanno l’aria d’essere spigole. Il bianco, più pronto del grigio e del baio, già gusta, come accade ogni giorno, quella carne saporita. La stalla occupa un’ala del casale protetta da una tettoia di tegole rosse. È solo una parte dell’edificio che si presenta come un insieme composito di tre case unite, e a fianco della porta d’ingresso, come a difesa, c’è un torracchione cilindrico color rosa, il tenero colore degli intonaci di quella costruzione e delle mansarde e degli abbaini, con i coppi dei tetti gialli. Davanti a questa che potrebbe essere una fattoria corre l’acqua celeste d’un fiumicello che si immagina ricco di pesci. Certi vascelletti, gusci di noce che inalberano vele quadrate e carichi di sacchi di mercanzie diverse, sono all’attracco, giunti or ora alla porta di casa da lontani porti. Caracollano uno vicino all’altro al vento leggero che appena gonfia le candide vele non ancora ammainate.

Sulla proda una pastorella. Indossa un abito chiaro di panno pesante. Un ampio zinale le cinge i fianchi. Porta una cuffia di foggia curiosa, con certe falde flosce. Come lo stalliere, anche la pastorella ha tra le mani una cesta piena di pesci. Li versa a terra, cefali o naselli, e se ne cibano avidamente le tre pecore che le stanno dattorno.

A questo punto il mio lettore penserà alla descrizione d’un sogno: non lupinella e avena ai cavalli, non trifogli ed erba novella brucano le pecore, ma, obbedendo a misteriose associazioni oniriche, le pecore sgranocchiano merluzzi e i cavalli vanno pazzi per i dentici e le orate.

No, non si tratta di un sogno. O, meglio, questo narrare che terrebbe del fantastico non racconta un sogno. Racconta invece esattamente quanto si dice accada nella città di Escier, posta tra Aden e Dhofar, nella penisola arabica. Si legge infatti in un puntuale e veritiero resoconto redatto da chi ad Escier c’è stato: «Escier si è una gran città, ed è lungi dal porto d’Edenti (Aden) quattrocento miglia. E sì ha molte castella sotto di sé, e sì mantiene bene ragione e giustizia. E sono saracini, i quali adorano Malcometto; e sì ha porto molto buono, al quale capitano molte navi, le quali vengono dell’India con molta marcatanzia, e pòrtane buoni e molti cavalli da due selle». Continua poi il resoconto: «e sì hanno pesci assai, e sì hanno tonni assai, e sappiate che dànno a’ buoi e a’ camelli e a’ montoni e a’ ronzini piccoli a mangiare pesce; e quest’è la vivanda che dànno alle loro bestie».

Ecco allora: non ho riportato la trascrizione di un sogno, ma mi sono applicato alla descrizione della miniatura che illustra una pagina del cento settantaduesimo capitolo de Il libro di Marco Polo detto il Milione, conservata con altre stupende ottantatré nella Biblioteca Nazionale di Parigi (Livre des Merveilles, cod. 2810). Ha scritto Daniele Ponchiroli: «Come si può facilmente rilevare, il gotico illustratore del Milione non ha alcuna conoscenza figurativa, neppure di seconda mano, del mondo orientale, e si affida esclusivamente alla lettera del testo e alla fantasia per dar figura e colori alle straordinarie rivelazioni di Marco».

Se ad Escier allevano con il pescato, dice Marco Polo, cavalli e pecore «questo è perché i’ loro contrada sì non hae erba, percioch’ella è la più secca contrada che sia al mondo»; quando Marco riporta che gli abitanti dell’isola di Agama hanno i tratti del volto cagneschi, «a simiglianza di gran mastino» e che «Egli hanno molte ispezie», il nostro fedele illustratore ci mostra cinque mercanti che contrattano le loro merci in una valletta fiorita d’alberelli e vaghe erbette. Lontano le cuspidi delle torri d’una città. Quegli uomini vestono abiti sgargianti e si muovono con gesti misurati improntati a maniere civili. Parlano tra loro frasi intese certo al buon esito dei loro affari. Le loro teste di cane si atteggiano in espressioni del muso che non appaiono canine, ma, virtù del miniaturista, son rese «a simiglianza» della mimica dei volti umani.