«Per i miei contavano solo i bei risultati, soprattutto per mia madre. A un certo punto la pressione a casa era così forte che mi sono iscritta a un collegio. In questi collegi ci hanno distrutto mentalmente. I più grandi molestavano i più giovani. La prima volta avevo dodici anni. Ma sono riuscita a liberarmi. E quando volevo uscire, davanti alla porta c’era il direttore. E mi bloccava la strada». A parlare a un giornalista è Andrea Weingartner, ex sciatrice professionista. «Era un sistema fatto di bonus. C’erano punti extra per chi guardava e anche di più per chi partecipava. Un sistema che trasformava le vittime in carnefici».

Andrea continua, sapendo che quello che sta per dire a circa quarant’anni dai fatti, avrà un peso enorme su di lei, nell’epoca, sì, del Me Too ma anche degli orridi Social che permettono ogni forma di insulto e aggressione verbale. La donna si fa forza. È giunto il momento di rivelare quello che è accaduto a lei, alle sue compagne e ai suoi compagni che, prima o poi, vorranno unirsi nella battaglia contro un nemico enorme, protetto da cinici alleati, dipendenti timorosi, sognatori inebetiti dagli inni nazionali.

«ALL’ETÀ di sedici anni ho partecipato alla mia prima gara di Coppa del Mondo. E l’ho vinta! Alla festa, due compagni di squadra più grandi mi hanno fatta ubriacare. Uno mi ha stuprata. L’altro ha filmato. Non è stato un caso isolato».
Persona non grata di Antonin Svoboda, qui al suo sesto lungometraggio, è ispirato alle vicende di Nicola Spiess Werdenigg che il regista conobbe casualmente una decina di anni fa. Nel film, la persona si è poi trasformata, appunto, nel personaggio di Andrea Weingartner, una donna che dopo la morte di suo marito e le molestie di un vicino di casa, inizia a ripensare al suo passato di giovane promessa dello sci alpino austriaco e a ciò che subì nei raduni, allenamenti e competizioni. Fu proprio per quelle violenze mai punite, che decise di ritirarsi a soli ventidue anni, di lasciarsi alle spalle possibili successi e sicuri danni al corpo e alla psiche.

Un padre professionista, una madre campionessa olimpica e, dunque, un’infanzia e un’adolescenza passata sugli sci ad allenarsi, a corrispondere prima alle volontà dei genitori, poi alle pressioni di una federazione che per importanza è pari a quella del calcio in Italia o in Spagna. Andrea, perciò, è sempre stata al servizio di una famiglia e di una nazione, di dirigenti e spettatori che esigono vittorie e medaglie. E poco importa che in quel sistema si aprano delle crepe sempre più estese, sotto forma di tremendi atti di sopraffazione. In un crudele e assurdo ribaltamento dei valori, la violenza fisica di un uomo su una donna diventa un fastidioso elemento che non può in alcun modo intaccare una grande visione, un prodotto dell’immaginario collettivo.
Nel dopoguerra gli austriaci avevano ben poco di cui gioire, dice Andrea in un’intervista. E lo sci si trasformò in una specie di riscatto per un’intera popolazione. Gli idoli, quindi, non possono cadere. E non solo immediatamente al di là delle Alpi.

QUANDO le frasi di Nicola/Andrea uscirono sotto forma di articolo il 20 novembre 2017 sul quotidiano «Der Standard», altre vittime decisero di uscire allo scoperto e di testimoniare contro la federazione austriaca. Una vittoria che, in tempo di Olimpiadi, vale più di una medaglia d’oro.