Persi nel fantabosco
Una conseguenza di tre mesi di lockdown è stata la voglia di camminare e uscire di casa e di città. Le difficoltà e le pessime notizie oltreconfine hanno alimentato un […]
Una conseguenza di tre mesi di lockdown è stata la voglia di camminare e uscire di casa e di città. Le difficoltà e le pessime notizie oltreconfine hanno alimentato un […]
Una conseguenza di tre mesi di lockdown è stata la voglia di camminare e uscire di casa e di città. Le difficoltà e le pessime notizie oltreconfine hanno alimentato un turismo del mordi e fuggi che si è riversato spesso nelle località dell’entroterra, con una certa assiduità sulle nostre montagne. Chi abita questi territori ha dovuto assistere ad un’ondata senza precedenti di suv che parcheggiavano ovunque, code chilometriche in risalita, la domenica mattina, e in discesa, nel tardo pomeriggio. Taverne e ristoranti pieni, e questa è stata senz’altro una buona notizia. Ma anche intasamenti imbarazzanti lungo i sentieri più battuti, le cenge, le ferrate, le cime più facili, i boschi attrezzati.
ORA, SE DA UN LATO L’ECONOMIA LOCALE ne ha assorbito i benefici, dall’altra l’eccesso e la frenesia della presenza turistica hanno messo a dura prova una pacifica convivenza, oltre a non averci probabilmente assicurato un reale beneficio generale, individuale quanto sociale, poiché lo stress del viaggio, il traffico, i ritardi, la fatica per trovare un posto isolato e solitario, insomma, quando il turismo diventa massificato quel che dovrebbe trasformarsi in riposo e ristoro diventa ben altro. Può quindi risultare legittimo porsi dei quesiti. Ad esempio c’è chi si chiede: non sarebbe forse il caso di istituire dei corsi di educazione al cammino e al turismo in montagna?
NON SAREBBE FORSE IL CASO di pianificare meglio la migrazione urbana verso lidi di pace evitando l’improvvisata? Siamo oggi in grado di governare i desideri di natura – montagna – mare – collina? Per molti sarebbe intollerabile, sottostare ad un ordine più grande, di «popolo», generale, decidere di vedere se è possibile andare a Comacchio, o a Sasso Marconi, o a Courmayeur, o a Cortina? Limitarsi, rinunciare poiché «il limite umano» è già stato raggiunto? Come fare insomma per evitare che i nostri parchi nazionali, le nostre preziose cime, le nostre spiagge, le nostre riserve di biodiversità non diventino costantemente un’alternativa al cinema, al centro commerciale, alla vasca in centro o a Disneyland? Possono sembrare speculazioni da poco, ma chi scrive al contrario crede che nel futuro prossimo ad alcune di queste domande bisognerà dare reali, concrete, effettive e fattuali risposte. Non lo chiede soltanto un maggiore rispetto dei nostri ecosistemi, valore che comunque basterebbe per escogitare un modo di rapportarci ai luoghi che non sia soltanto da «consumatore», ma anche l’ordine civile, la gestione economica delle attività, la pulizia delle strade quanto dei sentieri, servizi sostenibili e molto altro ancora.
QUESTA MATTINA SONO RISALITO dalla pianura e sono tornato nei boschi del Gran Paradiso, a Ceresole Reale. Ho percorso lo stesso sentiero che avevo toccato a giugno, durante una camminata accompagnata. In quel caso, assieme ai partecipanti, avevamo accarezzato alcuni alberi, studiato le geometrie delle cortecce, ammirato i muschi che ricoprono copiosamente i massi, e meditato su una splendida roccia panoramica, di fronte alle montagne bianche e lucenti dirimpetto. Il flusso di visitatori che fermentava lungo i sentieri era costante e disturbava ogni tentativo di concentrazione, ogni minuto, il passaggio chiacchierato di altri escursionisti era una prova.
E’ INTERESSANTE NOTARE COME CERTI caratteri credano che il proprio spazio, in natura, sia sacro e inviolabile, il che li porta a considerare il proprio parlare immodificabile, o il proprio agire immodibificabile – e penso ai ciclisti che talvolta sfrecciano lungo i sentieri come se fossero piste, senza pensare al rischio che fanno correre, al fastidio che danno ad altre persone presenti; ci sono persone che di fronte ad un gruppo di anime raccolte in meditazione alza la voce, quasi a volersi imporre, e ci sono persone che si moderano, comprendendo che la propria libertà conta quanto quella di altri. Pleonastico, purtroppo, aggiungere che i più si comportano come i primi.
OGGI INVECE AL FANTABOSCO di Ceresole Reale non s’incontra anima viva, a parte qualche uccello. Le chiome delle conifere si stagliano nel cielo perfette e immobili. Il mormorio di un timido ruscello che costeggia il sentiero mi accompagna, rilassandomi ulteriormente. Un altro bosco. Un altro io che si distende e non aggroviglia. Un altro riempiersi i sensi, un altro mondo.
Si può percorrere un sentiero che parte alle spalle del Grand Hotel Casa del Re, fra i bellissimi aceri in cerchio e in fila che impreziosiscono un piccolo giardino.
LA STRUTTURA E’ STATA INAUGURATA nell’anno 1888 e questi alberi probabilmente sono stati messi a dimora nella stessa stagione e dunque rappresentano una piccola cooperativa vegetale oramai monumentale. A piedi si procede verso il fiume Orco, si transita su un ponte e ci si avvia alle case diroccate di località Ghiarai, addossati ai piedi del gran bosco che ricopre tutta la montagna che avete di fronte. Un acero doppio custodisce il silenzio di queste case in buona parte franate, cedute, sprofondate. Da qui si inizia a risalire, lentamente, lungo il sentiero, inoltrandosi in quel che recentemente viene indicato come il Fantabosco. Un bosco ricco di essenze arboree quali l’abete rosso (o come si chiama qui la pësì), il larice (o la brendje), l’acero (lou pianou), il maggiociondolo (l’arbor), il sambuco (lou sambur) l’ontano (la droza o la verna), il sorbo degli uccellatori (lou tumel) e il frassino (lou frasou).
L’AMBIENTE ALPINO E’ RICCO DI NOMI di alberi, nomi che le passate generazioni conoscevano a menadito, di cui spesso vivevano, mentre le nuove qui come altrove hanno iniziato a dimenticare. Lungo questo sentiero si incontreranno alcuni bei e larghi pecci, uno nel primo tratto dopo le case, sulla destra, con un tronco che misura a petto d’uomo 270 cm, ma il più grande è un fuso, dritto, maestoso, che troneggia ad un successivo slargo, un’area picnic da cui parte anche un sentiero laterale che risale la costa della montagna.
QUI, AI PIEDI DI UNA PANCHINA che porta inciso il nome della frazione, s’innalza uno splendido esemplare che tocca e supera i trenta metri di altezza. Il suo tronco porta una misura di tutto rispetto: 330 cm. Come apprende ogni dilettante cercatore di grandi alberi attribuire un’età partendo dalle misure è complesso, audace, facilmente conduce a esiti improbabili. Di certo si tratta di un albero secolare, ma non sarebbe un sacrilegio ipotizzare che abbia toccato i 150 anni, se non addirittura si sia avvicinato ai due secoli. Non credo sia riconosciuto fra gli alberi monumentali del Piemonte ma dovrebbe esserlo. Potremmo suggerire anche un nome: la pësì viea, l’abete vecchio.
PS. Ringrazio la guida ed amica Alessandra Masino per l’accompagnamento e avermi fornito notizie preziose, quali i nome degli alberi nella lingua locale.
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