Lavoro

Agromafie, ci pensa il caporale

Agromafie, ci pensa il caporaleL'attesa dei caporali a Villa Literno – Sintesi visiva

Il dossier Rapporto Flai Cgil sul lavoro nei campi: oltre 100 mila i «para-schiavi». Sottratti 600 milioni di euro l’anno all’Inps. «Serve una legge per punire le imprese e tutelare chi denuncia»

Pubblicato più di 10 anni faEdizione del 4 giugno 2014

Baljit Singh è indiano: ha lavorato diversi anni in un’azienda di Pontinia (Latina), come mungitore. I padroni italiani erano pronti a lasciarlo morire, pur di non venire allo scoperto: «Un giorno mi hanno chiesto di pulire un frigorifero, con acido misto a candeggina. I fumi mi hanno stordito, e loro si sono rifiutati di portarmi all’ospedale perché ero irregolare. Sarei morto se non mi avesse accompagnato un mio collega: loro poi mi hanno raggiunto al pronto soccorso, imponendomi di tacere. Poi sono andato alla Cgil, e li abbiamo denunciati».

Il secondo Rapporto su Agromafie e Caporalato della Flai Cgil è pieno zeppo di storie di questo tipo: preparato dall’Osservatorio Placido Rizzotto (non a caso dedicato a un sindacalista morto per difendere i lavoratori del Meridione), mette insieme cifre e dati di un’economia malsana – quella italiana, in gran parte sommersa – e offre un’interessante mappatura di tutto il territorio nazionale. Basandosi sulle denunce al sindacato, i rapporti istituzionali e le attività delle forze dell’ordine, offre un quadro ragionato delle attività della criminalità organizzata in campo agroindustriale e alimentare. Con una particolare attenzione allo sfruttamento del lavoro.

Il primo dato che salta all’occhio, come nota Stefania Crogi, segretaria della Flai Cgil, è il numero delle persone denunciate per il reato di «caporalato»: «Sono ben 355 dal 2011, cioè da quando è stata approvata la legge che noi abbiamo sollecitato. Una conquista importante: ma adesso ci resta da completare l’opera. Vorremmo che si applicasse la direttiva Ue 52/2009, che dispone di individuare e punire anche l’”utilizzatore finale” dei lavoratori intermediati dal caporale, ovvero l’impresa. E poi si dovrebbe permettere ai lavoratori che denunciano di ottenere un permesso di soggiorno: a causa della Bossi-Fini, se sono irregolari rischiano di essere mandati in un Cie e poi espulsi. Un paradosso: in questo modo chi denuncerà mai?».

Il caporalato in agricoltura, secondo le stime del Rapporto Cgil, costa allo Stato un’evasione contributiva non inferiore ai 600 milioni di euro annui. Sono almeno 400 mila, l’80% dei quali stranieri, i potenziali lavoratori in agricoltura che rischiano di confrontarsi ogni giorno con il caporalato. Mentre sono sicuramente 100 mila quelli che vivono una grave condizione di sfruttamento lavorativo, oltre al grave disagio abitativo e igienico-sanitario.

Chi si affida a un caporale non solo viene sfruttato nei campi: da Nord a Sud, il dossier sfata il falso mito secondo cui il para-schiavismo si concentrerebbe solo nel Meridione. Il Piemonte ad esempio è molto colpito, come anche la Lombardia, il Veneto e l’Emilia, spesso nelle coop della logistica o nelle aziende di confezionamento. Ma poi viene spesso «accolto» in luoghi fatiscenti e sporchi, senza acqua potabile e servizi igienici, e lì deve vivere: magari non perché forzato, ma anche solo per il semplice fatto che all’alba il caporale viene lì, e non altrove, a prenderti.

Dati da brivido: il 62% dei lavoratori impegnati nelle raccolte non ha accesso ai servizi igienici; il 64% non ha accesso all’acqua corrente; il 72% di quelli che si sono sottoposti a visita medica, ha sviluppato malattie legate al lavoro.

E come vengono retribuiti? Naturalmente in nero, con ampi margini di risparmio per le imprese rispetto al lavoro regolare: tra i 25 e i 30 euro al giorno, per una media di 10-12 ore di lavoro. Ma mica possono tenerseli tutti. C’è la «tassa» per i caporali, spesso vicina al 50% del già magro salario: 5 euro per il trasporto, 3,5 euro per il panino, 1,5 euro per la bottiglietta d’acqua.

«I caporali forniscono due cose fondamentali per i lavoratori – dice Enrico Pugliese, sociologo del Lavoro – La prima è il trasporto, o ad esempio l’acqua: a peso d’oro, tanti campi non hanno neanche una fontanella. La seconda è l’informazione: solo io so dove c’è lavoro oggi, altrimenti resti a casa. Se il pubblico fornisse mezzi per andare nei campi, come è stato sperimentato a Cosenza, o un collocamento efficace, questa piaga sarebbe già eliminata senza bisogno di puntare solo su controlli e repressione, che pure ci vogliono».

Tra le richieste della Cgil al governo Renzi, infatti, come spiega Roberto Iovino, che per la Flai ha curato il Rapporto su Agromafie e Caporalato, c’è quella di creare «un collocamento trasparente e legale in rete per la domanda e l’offerta».

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