Pernigotti, salta il salvataggio di Di Maio. I turchi recedono dal contratto
A rischio 160 lavoratori La Spes si dice disponibile a riaprire la trattativa «purché si definisca un percorso seriamente volto alla reindustrializzazione con impegni e tempi certi a tutela di tutti i soggetti coinvolti»
A rischio 160 lavoratori La Spes si dice disponibile a riaprire la trattativa «purché si definisca un percorso seriamente volto alla reindustrializzazione con impegni e tempi certi a tutela di tutti i soggetti coinvolti»
L’accordo di inizio agosto era stato presentato con toni trionfalistici dall’allora ministro allo Sviluppo economico Luigi Di Maio: la Pernigotti è salva e pure i dipendenti. Così, si era detto. Ogni parte in causa era stata dipinta come soddisfatta. Ma le incognite erano palesi. Ecco perché l’ultimo colpo di scena – l’ennesima doccia fredda per i lavoratori dello storico sito di Novi Ligure – non è completamente inaspettato.
A TRE GIORNI DALLA SCADENZA prevista per la firma dei contratti che avrebbero dovuto rilanciare la produzione dello stabilimento dolciario in provincia di Alessandria, venerdì sera, la proprietà turca dei fratelli Toksöz ha comunicato alla cooperativa torinese Spes, che avrebbe dovuto rilevare il ramo d’azienda che produce cioccolato, il recesso dal contratto preliminare per la cessione del comparto cioccolato-torrone. Una notizia che arriva poco dopo quella, più silenziosa, della rottura delle trattative tra la proprietà e Giordano Emendatori, per la cessione del comparto gelati.
Ripiomba, dunque, una sinistra incertezza sui destini della Pernigotti, un’azienda di ben 160 anni, e sui lavoratori – circa 160 – che iniziarono la battaglia contro la chiusura quasi un anno fa, lo scorso novembre. E, con la rescissione dei contratti preliminari, scricchiolano i pilastri su cui si basava il salvataggio, a mo’ di spezzatino, annunciato da Di Maio a metà estate.
«SONO PROFONDAMENTE DELUSO e dispiaciuto, il progetto di Spes avrebbe potuto rilanciare il sito produttivo – ha affermato, caldo, Antonio Di Donna, presidente di Spes-, l’assunzione di tutto il personale e la valorizzazione del territorio novese erano alla base di quanto ho avuto modo di rappresentare ai lavoratori la scorsa settimana. Ora, ho il rammarico che tutto resti solo un’illusione per le persone che ho incontrato». La cooperativa sarà comunque presente alla riunione del Mise, il 2 ottobre a Roma, «per rispetto dei lavoratori e delle istituzioni». Non ci sarà più Luigi Di Maio, ma il nuovo ministro Stefano Patuanelli.
La Spes si dice disponibile a riaprire la trattativa «purché si definisca un percorso seriamente volto alla reindustrializzazione con impegni e tempi certi a tutela di tutti i soggetti coinvolti». L’alessandrino Federico Fornaro, capogruppo di Leu alla Camera sollecita la proprietà turca a «gettare la maschera e dire cosa vuole fare». E aggiunge: «Non è più sopportabile un balletto di avanti e indietro sulle strategie aziendali che impedisce all’azienda e ai lavoratori di avere un futuro certo.
La strada maestra rimane la vendita della Pernigotti, ma se i fratelli Toksöz non vogliono percorrere questa via individuino soluzioni che garantiscano la continuità produttiva nel rispetto dei diritti dei lavoratori, che per parte loro hanno avuto anche troppa pazienza e hanno tutta la nostra solidarietà».
NEL COMMENTARE il fallimento della trattativa sulla Pernigotti, la Coldiretti ha ricordato come il gruppo turco Toksöz, proprietario dal 2013 del celebre marchio, sia il maggior produttore mondiale di nocciole. «L’importazione di nocciole dalla Turchia in Italia è aumentata del 18% nel 2018 per un totale di 31,5 milioni di chili secondo l’Istat, nonostante i numerosi allarmi scattati per gli elevati livelli di aflatossine cancerogene». Questo, è per il presidente dell’associazione Ettore Prandini, anche «il risultato del circolo vizioso della delocalizzazione che inizia con l’acquisizione di marchi storici del Made in Italy, continua con lo spostamento all’estero delle fonti di approvvigionamento della materia prima agricola e si conclude con la chiusura degli stabilimenti con effetti sull’occupazione e sull’economia nazionale dal campo alla tavola».
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