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Permunian e le voci del terrore acquatico

Permunian e le voci  del terrore acquaticoClara Calamai e Massimo Girotti in Ossessione di Luchino Visconti, 1943

Polesine Francesco Permunian è nato nel 1951 a Cavarzere. Fu l’anno dell’alluvione che ha segnato la sua infanzia e anche la sua narrativa. Persone, foto, fantasmi nell’auto-antologia Calabiani (da Oligo)

Pubblicato circa 2 anni faEdizione del 17 luglio 2022

In principio fu la catastrofe. Poi l’annichilimento portato dalla catastrofe. Poi nulla, se non la memoria pietrificata di un evento che si è impossessato di ogni spazio esistente, fisico e mentale, e di ogni ipotesi di passato, di presente e di futuro. Nulla esisteva che non fosse l’informe spaventoso del dopo, una zona paludosa, waste Land dove il tutto è il nulla che si fa rovina. E quel rovinoso nulla prese a corrodere e sciogliere ogni elemento nell’eterno presente di un assoluto capace, nella furia scatenata dalle forze della natura non più madre ma matrigna, di dare una dimostrazione istantanea e concreta di cosa possa voler dire cancellare la creazione: abolire paesaggio, famiglie, affetti, amicizie, vincoli di ogni tipo, divorare persone, animali, piante e oggetti e farne un unico impasto di fango, quasi a voler inspiegabilmente tornare a quel fango primordiale che insufflato di un alito divino aveva animato il primo progenitore: di punto in bianco nella piana del Po si costringeva ogni forma di vita a ritornare a quel fangoso nulla primigenio.
A leggere Francesco Permunian viene incontro l’idea che la rabbia funesta del Po e della natura tutta abbia potuto sovvertire millenni di esistenza umana in virtù di una legge inflessibile e dimenticata. Il libro cui si fa riferimento in quest’occasione è Calabiani Antologia priva dei miei demoni infantili (introduzione di Rolando Damiani, postfazione di Licia Maione, Oligo, n. 9 della collana «Chrysòs/oro», pp. 159, € 15,00), il più recente testo dell’autore di Cavarzere che sta vivendo un momento di grazia speciale. Si tratta di una auto-antologia che propone in forma rivista sezioni di opere già edite ma diversamente ricomposte.
Il titolo deriva dal nome Ca’ Labia, un piccolo centro del Polesine veneziano vicino Cavarzere, il paese dove Permunian è nato proprio nell’anno del disastro del Polesine. Ricordare l’alluvione del 1951 significa partire da un punto di non ritorno. Eppure il disastro provocato dalle acque impazzite e, analogamente, i lutti che hanno segnato la vita dell’autore, non hanno valore solo per quello che hanno inciso a livello individuale. Permunian, qualunque sia il soggetto della sua scrittura, scrive dopo la catastrofe e scrive per tutti coloro che hanno consapevolezza che avere a che fare con il disastro sia l’unica cosa che conta sapere e che davvero accomuna. Dopo la devastante onda d’urto (del fiume, della morte, della separazione), «l’immensa ondata di terrore liquido» si configge per sempre nella memoria dell’autore e resta al sopravvissuto la dimensione della solitudine da attraversare con ostinazione ossessiva. Il Polesine, dove peraltro Luchino Visconti scelse di ambientare proprio il film Ossessione, diventa per Permunian la concreta allegoria del ‘male di vivere’: il tempo si è fermato, l’evento è accaduto una volta per tutte e si scopre di essere entrati nello spazio di un’immagine non transitoria. In quello spazio si alzano poco a poco e acquistano corpo, un corpo anch’esso immaginale, case, persone, fotografie, ricordi imprigionati come insetti nell’ambra all’interno di una materia traslucida che ne ha fissato i contorni e ne restituisce ogni minimo dettaglio. Vicinissimi e irraggiungibili. Il narratore-poeta salvato all’età di nove mesi dalle acque in una cesta si riconosce destinato da sempre «ad ascoltare quelle strane voci acquatiche che nel buio lo chiamavano per nome». Alla sua infanzia, «la geografia del suo precoce dolore di vivere», non può far seguito altro se non il «cerimoniale» perfetto dell’esistenza.
Fin dalla prima pagina la scrittura incede con il passo sicuro e terribile di chi usa la lingua come uno scultore capace di aver ragione di ogni asperità e di ogni vena del marmo più difficile. Il linguaggio scolpisce i ricordi dei Calabiani («un’armata di fantasmi») che cava dall’informe e trasforma nel marmo della scrittura i «castelli di chimere» di un’infanzia atroce: «Rammento comunque i pantaloni rattoppati e le mani callose per le fatiche». Il Polesine di Permunian è un sacco amniotico, annota Damiani, «dove vita e morte sono ancora congiunti e niente assicura una fuoriuscita a vivere».
«Che più triste dei ricordi?» scriveva Alberto Savinio. Ma Calabiani regala l’immensa gioia della struttura linguistica tesa e tersa, dove con lucidità leopardiana si consegue la pace di un conquistato nitore formale. Quando Zanzotto consegnò al giovane Permunian la Recherche non poteva sapere quanto quel gesto sarebbe stato decisivo nelle scelte letterarie di quello che fino ad allora era stato poeta affranto e schiacciato dal dolore. E Proust guidò lo scrittore di Cavarzere a lavorare le lacrime e i ricordi per fare di quei «fantasmi aguzzi» dura letteratura, una letteratura che – nonostante la terribilità degli eventi cui si fa riferimento – portasse la luce di una perfetta immagine verbale.

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