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Permunian, a caccia di incubi quando il giorno muore

Permunian, a caccia di incubi quando il giorno muorePaolo Ventura, "Behind the walls #1", 2011

Narrativa italiana Dal «servo felice» al medico Porfirio Papas, Il Saggiatore rilancia il dittico d’esordio dello scrittore di Desenzano: «Costellazioni del crepuscolo»

Pubblicato quasi 7 anni faEdizione del 15 ottobre 2017

Quando esce un libro di Permunian si può tornare a parlare di letteratura. La sua posizione è rimasta felicemente schiva, anche dopo anni di plauso della critica più accorta e affilata; la qualità della sua scrittura sempre vigile, caustica, esattissima e spiazzante; i temi sempre impietosi, abissali. Dall’esordio narrativo del 1999 per Meridiano Zero, Cronaca di un servo felice, Francesco Permunian ha continuato a raccontare il nostro paese delle ceneri, in varietà di toni e con miriadi di folli, bislacchi sgabbiati, decrepiti in sfacelo, adolescenti perduti, bambini trapassati, dulcinee di gomma, ed erotomani, necrofili, bigotti, provinciali, atei illuminati – sospesi tutti sulla voragine di un terrifico e cattivante sottosuolo, o già precipitati nel fondo, magnetico vortice di buio. Permunian non ha mai tradito il giudizio di Edoarda Masi giustamente ricordato da Massimo Raffaeli un quindicennio fa: «Autori così rendono possibile parlare di letteratura anche in un momento come questo». Letteratura, intanto, perché le sue opere a questa appartengono, e poi perché di molta e rivelatrice letteratura altrui si avvertono le fibre in un tessuto tanto blasfemo e acre, in obliquo divertente, e amaro. Non ultimo, poi, perché Permunian non perde occasione di flagellare la falsa letteratura che confonde e ammorba, gli scribacchini e il mercato delle lettere, le «maestrine con la penna rossa che infestano le redazioni editoriali», e «il merdaio di chiacchiere» che è la «nostra intellighenzia nazionale», gli accademici e i letterati che tentano di diventare scrittori con nessun costrutto – mai scrivono «un libro vero» – ma con molto successo di critica servile. Né manca di picchiare proprio loro, «i signori critici», i vuoti e luccicanti cerimoniali dei premi e il pubblico delle rassegne letterarie: «uomini e donne che leggono con occhi di ciechi (…). Analfabeti che corrono su e giù per l’Italia da un festival all’altro (…). Idioti con la testa rintronata per i libri mai letti e convinti che il festival di Mantova sia un reality televisivo», come fa dichiarare a Ceronetti in un’indimenticabile scena di La Casa del Sollievo Mentale (Nutrimenti, 2011).
Che oggi, a quasi vent’anni, torni alle stampe l’apparizione narrativa di un autore che alla parola e alla letteratura crede davvero, Cronaca di un servo felice, non può che essere un ottimo, salutare gesto contro i nostri tempi. Soprattutto, poi, se la si ripubblica insieme alla seconda, Camminando nell’aria della sera (2001), collegate da un inedito e privato ponte: un faldone di appunti presi durante la stesura dell’esordio. L’edizione è rubricata sotto il titolo «provvisorio e alquanto aleatorio» del faldone, Costellazioni del crepuscolo (prefazione di Salvatore Silvano Nigro, il Saggiatore, pp. 403, € 24,00), summa e anticipazione di incancellabili tratti della scrittura di Permunian: la disseminazione pulviscolare, la lontananza e il fascino dei punti di luce – siano lucciole/ricordi o stelle intangibili –, la predilezione per l’ora in cui il giorno muore, per l’imminenza della cenere.
«Incubatoio» di testi successivi, il cardine del libro, estratto da un agglutinamento di biglietti, disegni della figlia bambina, cartoline, tovaglioli, si rivela una costellazione Permunian, aurorale e già decantato ordito di malinconie e ossessioni che sostanziano tutte le sue opere. Anche le più personali ed elegiache – si badi –, quelle che meno danno agio ai commentatori di esercitarsi nel bello stile, quasi l’autore volessero emulare in tensione di sarcasmo e grottesco. Mi riferisco ai petits poèmes en prose del Principio della malinconia (Quodlibet, 2005) di cui in Costellazioni si ravvisano versioni con varianti. Talora toccanti e rivelatrici, come il sogno in cui una ragazza stringe un panno che stilla sangue, in un caso «fazzoletto», nell’altro «sudario».
È già qui lo scrittore che come l’amato Cioran conosce l’insonnia, che sceglie epigrafi da Piovene, Parise, Cordelli, Manganelli, Céline, e che ha la sua «personale e sacrosanta trinità laica» – nel Gabinetto del dottor Kafka (Nutrimenti, 2013) – in António Lobo Antunes, Bruno Schulz e Robert Walser.
Qui fa le sue prime prove, tra intima poeticità e sferzante acume, uno scrittore che sa cos’è «vivere sugli orli», Ripellino diceva di Schulz; qui si intende il passaggio «dalla discesa all’inferno alla risalita purgatoriale», avverte nella sua elegante prefazione Silvano Nigro. Dittico e snodo, insieme, permettono di vedere il Permunian che coglie «l’orrore empio e mostruoso che s’alza dagli abissi», quello che sempre «va a caccia di incubi», anche quando muove dall’asfittico palazzo Pallavicino del primo quadro al poliedrico ed elegiaco ritratto di una provincia lacustre del secondo. Mutano aria e tono, tra l’uno e l’altro, ma potente e inarrestabile lavora, tanto nei racconti del felice servo Ermete Carafa, quanto nello sguardo del medico Porfirio Papas nell’aria della sera, il motore di questa scrittura, ossia l’indistricabile nodo di feroce disdegno e malinconia del lutto. E sempre agisce «la fantasia fiamminga», à la Bosch ma libera dall’occhio sacro di Dio – illumina Nigro – che caratterizza il suo autore.
Questa riedizione induce a cercare altri emblematici fili, sottili, nell’intera produzione. Penso alla desiderata «fioritura dei mandorli in novembre» nella Casa, ai «mandorli in fiore» che nel Principio sono struggente ipostasi «del tempo in cui lei era tra noi», al culto che Ermete vorrebbe per la «beata Marianna della Magnolia Fiorita». Penso alle voci dei bambini di Terezin nella climax della Casa e ai lamenti dei deportati nei muri di Villa Liberty nell’aria della sera. Un intero «destino di putredine e d’innocenza» che tutti ci riguarda.
Non è dato, a noi, il candore della bambola Griselda, né la sua «eternità di plastica» che, pur ignota, ci consuma d’immedicabile nostalgia, ma come lei vorremmo a lungo sentirci dire da Ermete, osservatore-messaggero di souffrance, «ascolta questa voce di servo che ogni sera ti racconta la trama di quel delirio divino che è la vita umana».

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