E’ molto bravo, è sospetto. Perciò lo condannano: perché sarebbe stato in grado di commettere il reato. Perché sarebbe stato capace di entrare nei sistemi informatici del governo. Lo condannano, anche se non l’ha fatto.

“Criminalizzare la conoscenza”, l’ultimo atto compiuto dall’Ecuador e dal suo governo che, poche ore dopo l’assalto e l’irruzione della polizia all’ambasciata messicana, conquista di nuovo le prime pagine.

Stavolta a far notizia è la sentenza di un tribunale di Quito, un tribunale di appello, che ha ribaltato la sentenza di assoluzione dell’anno scorso e condannato nuovamente ad un anno di carcere Ola Bini. Sì, l’informatico svedese di 42 anni, che da più di un decennio vive nel paese sudamericano.

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E qui, nella villetta dove c’è ambasciata inglese a Quito, ha conosciuto e frequentato Julian Assange, in quelle stanze dove il fondatore di Wikileaks aveva cercato di trovare rifugio prima che l’allora presidente Moreno gli revocasse l’”asilo” e lo consegnasse alle autorità britanniche.

Ma la sua amicizia con Assange spiega solo una parte delle ragioni per la quali lui era ed è così inviso alle autorità ecuadoregne del dopo Correa. Perché Ola Bini (all’anagrafe Ola Martin Gustafsson) da sempre ha lavorato, studiato e ricercato per i diritti digitali, a difesa della privacy, contro la sorveglianza. Contro il commercio dei dati.

Ha sempre lavorato a combattere le barriere imposte dai signori del copyright, un tema che l’aveva in qualche modo legato ad Aaron Swartz, il giovane ricercatore statunitense che si è suicidato undici anni fa, per sfuggire alle campagne di accuse dell’Fbi.

Ola Bini era ed è uno studioso invitato nei convegni in tutto il mondo, tanto più che si è letteralmente inventato due nuovi linguaggi di programmazione. Ma la sua fama non ha impedito alle autorità ecuadoregne di arrestarlo, cinque anni fa.

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Anche il suo arresto fece scandalo: era all’aeroporto di Quito, stava per prendere un aereo diretto a Tokio – per assistere ad un evento sportivo: è appassionato di arti marziali – quando fu avvicinato da alcuni agenti. Che lo ammanettarono. E lo rinchiusero senza spiegazioni in una stanza dello scalo aereo.

Qui, da una tv, venne a sapere del “suo” arresto e del motivo. L’accusa era di aver violato un sistema informatico statale e di aver messo in pericolo la sicurezza nazionale.

Accusa poi ridimensionata al “tentativo” di ingresso nel sistema della compagnia telefonica CNT. Si fece però lo stesso settanta giorni di carcere prima che un giudice – ci sono anche lì – sentenziasse che la sua detenzione era stata “arbitraria ed illegale”.

Particolare non irrilevante: a decidere quella detenzione illegale erano stati due giudici che ora hanno fatto parte della giuria che poche ore fa ha ri-condannato Ola Bini.

Comunque sia, una volta uscito di carcere, c’è stato il processo. Conclusosi l’anno scorso. Con l’assoluzione. Perché il pubblico ministero a sostegno della sua accusa – tentativo di intrusione in un sistema protetto – aveva portato solo la foto di uno screenshot. L’immagine di una schermata di un cellulare che attraverso un browser chiedeva di entrare in un indirizzo: il 181.113.57.169. Che è appunto uno degli indirizzi della compagnia telefonica.

Una foto che poteva essere stata presa a chiunque, manipolata da chiunque, che raccontava di un numero, di un indirizzo IP. Tutto qui.

Ola Bini fu assolto. Ma l’autorità ecuadoregna non si è rassegnata. E, sempre sulla base di quello screenshot ha presentato appello. Sfiorando il ridicolo, a giudizio di tutti gli osservatori che hanno seguito il dibattimento. Perché in aula, l’accusa non è riuscita a dimostrare nulla, né il tentativo di ingresso nel sistema, né – cosa ancora più grottesca – che ci sia stata una violazione nel sistema CNT. La compagnia, infatti, non è stata in grado di confermarlo. Nulla.

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Eppure è stato condannato. Perché le sue conoscenze gli avrebbero consentito di hackerare il sistema, dice la sentenza. Perché usa la crittografia – anche questa è stata usata come prova di accusa -, perché studia e testa i sistemi di sicurezza e poco importa che lo fa per proteggere quei sistemi.

Una sentenza drammaticamente pericolosa, dunque. Perché – per dirla col suo avvocato, Carlos Soria e con tutte le organizzazioni per i diritti civili in Ecuador – con questa decisione i giudici hanno “criminalizzato la conoscenza”. Se sei capace, sei sospetto, se sai usare le tecnologie, puoi hackerare. Una prima volta spaventosa, esattamente come la prima violazione da parte della polizia in un’ambasciata.