Il Venezuela che uscirà dalle elezioni di domani non sarà comunque un paese pacificato. Se dovesse vincere la destra radicale, la deriva ultraliberista che ne seguirebbe aprirebbe infatti una stagione di grande instabilità. E se invece ad affermarsi sarà di nuovo Maduro, tutto indica che l’opposizione radicale griderà ai brogli, come è avvenuto puntualmente a ogni processo elettorale a cui ha preso parte. Non a caso Edmundo González Urrutia è stato, tra i dieci candidati, l’unico, insieme a Enrique Márquez, a rifiutarsi di sottoscrivere l’impegno a riconoscere il risultato delle presidenziali.

EPPURE, per quanto il governo abbia fatto ciò che ha potuto per intralciare la corsa delle destre, il sistema elettorale venezuelano era e resta uno dei più affidabili al mondo: sottoposto a ben 16 verifiche alla presenza dei rappresentanti di tutti i partiti – dalla revisione del software al controllo dell’efficienza delle macchine di votazione -, il sistema consente all’elettore, una volta espressa la sua preferenza sullo schermo elettronico, di ricevere dalla macchina la ricevuta del proprio voto e, dopo averla controllata, di inserirla nell’urna. E prevede, alla chiusura dei seggi, lo scrutinio dei voti stampati, i quali devono corrispondere al 100% a quelli espressi elettronicamente.

A supervisionare il processo elettorale ci saranno anche gli osservatori internazionali, tra cui quattro esperti delle Nazioni unite e delegazioni del Centro Carter, della Cina, dell’Unione africana e del Consiglio di esperti elettorali dell’America latina. Non sarà presente invece l’Unione europea, a cui è stato ritirato l’invito in risposta alla revoca solo parziale delle sanzioni contro funzionari e autorità legate al governo.

REVOCATO anche l’invito all’ex presidente argentino Alberto Fernández, in seguito ad alcune affermazioni apparse irrispettose al governo: «Se Maduro venisse sconfitto – aveva detto -, dovrebbe semplicemente accettarlo. Chi vince vince e chi perde perde. Punto. Questa è la democrazia».

Chi ha invece deciso di suo di cancellare la propria missione elettorale in Venezuela è stato il Supremo tribunale elettorale brasiliano, in risposta alle dichiarazioni di Maduro sulla presunta mancanza di trasparenza del sistema di voto in Brasile e in Colombia (dove, aveva detto, «non una scheda viene controllata»): un tasto, questo, particolarmente delicato, considerando le accuse di brogli lanciate da Bolsonaro prima e dopo le ultime presidenziali. E analoga decisione ha adottato il governo Petro, annullando la missione che avrebbe dovuto guidare il ministro degli Esteri Luis Gilberto Murillo.

Gli attriti erano in realtà iniziati già prima, con i toni preoccupati espressi dai due presidenti progressisti riguardo all’allarme lanciato da Maduro sul rischio di una guerra civile e di un «bagno di sangue» in caso di vittoria della destra. «Maduro deve imparare che, quando uno vince, resta e, quando perde, se ne va e si prepara per le successive elezioni», aveva reagito Lula.

A SCHIERARSI con il presidente venezuelano è stato invece il leader del Movimento dei senza terra João Pedro Stedile: «Non ha forse ragione a denunciare? Non ci ricordiamo quanto è avvenuto in Honduras quando hanno deposto Zelaya? E in Perù, quando hanno mandato via Castillo? O in Ecuador? La violenza è sempre opera delle forze di destra, delle milizie e della polizia».
Che il Brasile non voglia rompere con Maduro, lo dimostra comunque la conferma della presenza del suo consigliere speciale per gli affari internazionali Celso Amorim: «Credo – ha detto – che non sia il caso di peggiorare le cose»