In mezzo alle incertezze alimentate dalla guerra dei sondaggi, le aspettative riposte nelle elezioni di domani in Venezuela sono altissime, da una parte e dall’altra. E la ragione è chiara: per la prima volta dal 2013, i principali partiti di destra, che nel 2018 avevano optato per boicottare le presidenziali, presentano un proprio candidato, Edmundo González Urrutia.

Che si tratti di una terza scelta, dopo l’inabilitazione politica della golpista María Corina Machado e l’esclusione di fatto della filosofa e docente universitaria Corina Yoris, poco importa: per tutti indistintamente, dietro il candidato per caso c’è comunque lei, MariCori – così viene chiamata -, l’indiscussa trionfatrice delle discusse primarie dell’opposizione radicale, dichiarata ineleggibile per 15 anni ma ancora a piede libero, malgrado il suo sostegno al colpo di Stato del 2002 contro Hugo Chávez e alla farsa del governo ad interim di Juan Guaidó e le sue invocazioni all’intervento straniero. E dietro di lei c’è un programma non dissimile da quello di Milei – dall’eliminazione dei programmi sociali fino alla vendita delle imprese strategiche come quella del petrolio e del gas -, malgrado il suo nome, Tierra de gracia, prometta tutt’altro. Un programma scritto, incredibilmente, solo in inglese e presentato già nel 2023 al governo Usa.

ED È PROPRIO la paura che il Venezuela faccia la fine dell’Argentina – e che dunque del programma rivoluzionario di Hugo Chávez, già in larga parte disatteso dal suo successore, non resti più alcuna traccia – a spingere anche una parte significativa di chavisti scontenti a turarsi il naso e ad andare a votare per l’attuale presidente. Non tutti, però.

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Perché c’è anche un altro settore dell’elettorato alla sinistra del Psuv di Maduro deciso ad astenersi a fronte dell’esclusione di tutti i suoi rappresentanti, per i quali l’iscrizione al sistema on-line del Consiglio nazionale elettorale (Cne) si è rivelata un’impresa impossibile: così è stato per l’ex governatore di Mérida Alexis Ramírez, per l’economista dell’Encuentro Popular Alternativo Andrés Giuseppe e per Manuel Isidro Molina, che era sostenuto da diverse organizzazioni, compreso il Partido Comunista de Venezuela (Pcv), il quale, dopo la rottura con il governo e la sua crescente persecuzione politica, ha scelto sorprendentemente di sostenere Enrique Márquez, ex rettore del Cne e, all’epoca, oppositore di Chávez tra le fila della destra.

L’unione della sinistra (benché sempre un po’ precaria) dei tempi di Chávez è insomma un lontano ricordo. E quanto sia acceso il dibattito tra maduristi entusiasti, maduristi critici e chavisti anti-maduristi lo indicano bene i commenti pubblicati sul sito di Aporrea, una sorta di luogo di ritrovo della dissidenza all’interno del chavismo frequentato però anche da ferventi sostenitori dell’attuale presidente.

NON POTRÀ INVECE votare, anche volendo, la stragrande maggioranza dei venezuelani all’estero, stimati fra i 3 e i 5 milioni e mezzo: di fronte alle rigide regole imposte dal governo per l’iscrizione alle liste elettorali, solo in 69.211 ce l’hanno fatta, secondo i dati definitivi del Cne.

Lui, Maduro, che davvero non si è risparmiato in campagna elettorale girando per tutto il paese, ha puntato le sue carte sul Plan de la Patria, il programma nato dalla partecipazione di oltre 63mila assemblee, assicurando che quella di domani «sarà la vittoria più bella e più grande della storia elettorale del Venezuela» e che il modello «socialista» ne uscirà rafforzato.

CHE DI SOCIALISMO si tratti, tuttavia, ne dubitano in molti, anche tra chi lo vota. Perché, se dopo la spaventosa crisi economica sofferta negli ultimi anni – sicuramente anche grazie all’embargo deciso dagli Usa – la ripresa è stata consistente e gli scaffali dei supermercati sono tornati a riempirsi, molti lavoratori continuano a lamentare salari da fame, di certo non compensati dai vari “bonus di guerra”. Soprattutto a fronte delle tante concessioni offerte alle imprese, su cui, già nel 2021, si era pronunciata l’economista Pasqualina Curcio, di sicuro non ostile a Maduro: «Nessun paese – scriveva – ha dato più incentivi e benefici al capitale privato del Venezuela».

È stato del resto proprio il sito di Telesur, il canale chavista-madurista per eccellenza, a dare risalto al rapporto pubblicato dal Wall Street Journal secondo cui un gruppo significativo di imprenditori statunitensi del settore petrolifero tiferebbe «silenziosamente» per Maduro, in quanto offrirebbe una maggiore stabilità per gli investimenti nel paese.

TANTO PIÙ che l’attività petrolifera è aumentata nel 2023 del 9,4% – a febbraio la produzione di greggo della Pdvsa è arrivata a 877.000 barili al giorno -, contribuendo significativamente a spingere il Pil a più 2,6% (ma la crescita riguarda anche gli altri settori produttivi, compreso quello alimentare). Decisivo, al riguardo, l’allentamento delle sanzioni da parte degli Stati Uniti, che alle enormi riserve di petrolio venezuelano hanno sempre guardato con avidità e a cui sono tornati a interessarsi dopo l’inizio della guerra in Ucraina, concedendo dal 2022 una licenza speciale alla Chevron.

ANCHE SULLA POLITICA petrolifera di Maduro non mancano però le critiche: il suo governo, ha denunciato il Partito comunista, «si è trasformato in un capataz della Chevron e del capitale transnazionale».