Pericoli, i giorni aggrovigliati nel pennello
Tullio Pericoli, "Arte a parte", Adelphi Un piccolo libro di associazioni rapide e avventurose: tema , le rughe del tempo nell’opera (i ritratti come i paesaggi marchigiani) e anche negli strumenti del mestiere
Tullio Pericoli, "Arte a parte", Adelphi Un piccolo libro di associazioni rapide e avventurose: tema , le rughe del tempo nell’opera (i ritratti come i paesaggi marchigiani) e anche negli strumenti del mestiere
Con raffinato understatement, Tullio Pericoli nel suo volumetto Arte a parte (Adelphi, pp. 134, 20 illustrazioni, euro 14,00) ha ingannato il lettore, annunciandogli un lavoro nato quasi dal caso e dandogli invece, nella breve misura di note o pensieri, un saggio compatto della propria pittura: «ho preso – scrive – le parole che a volte sento girare nel mio studio e nella mia testa, le ho infilzate, le ho appese. Come carte moschicide. E ho aspettato che qualcosa del pulviscolo vagante nell’aria vi restasse attaccato. Sperando anche che quelle parole, esposte con tanta evidenza, traessero da sé una qualche propria potenza e, soprattutto, una loro forza magnetica capace di attirare riflessioni, ricordi, dubbi e stupori». Un libro di associazioni avventurose, effimere e repentine, insomma: ma c’è nulla di più forte dei legami magnetici?
Arte a parte ruota intorno ad alcuni temi, che possono poi ricondursi a uno: il tempo, che è il tempo lento, geologico, ruminato della terra fruttuosa. Sappiamo che in Pericoli non c’è nulla di fotografico o di impressionistico, egli non coglie, nei suoi famosi ritratti, l’inopinato, il fuggente, l’espressione che passa, ma preferisce aspettare che essa con le altre si sedimenti, fino a quando, segno su segno, non emerga l’unicità di quel particolare viso. Ma ascoltiamolo dalle sue parole: «di facce ne abbiamo una sola, ma credo ne esista una che è il condensato di tutte, una faccia che contiene anche quella dei nostri genitori e antenati, e pure qualcosa di quella che avranno i nostri figli. L’etimologia di un volto».
Ora, codesta maniera di concepire i volti, come sedimentata memoria, falde di cose trascorse, ha fatto pensare a Salvatore Settis ai paesaggi dell’artista, nei quali l’etimologia si trasmuta in un’altra scienza «verticale», la geologia, sicché la tela sarebbe «l’equivalente metaforico e concettuale della terra, il colore e le incisioni che attraversano la tela equivalgono alla lunga presenza umana su quelle valli e colline, il gesto del pittore ripercorre quello dell’agricoltore»; e, prolungando la metafora, lo strumento del pittore o del disegnatore somiglia al vomere col quale il contadino rivolta strati più profondi e uliginosi della terra: «sotto quel manto – scrive Pericoli – la terra è viva, pensavo. La sua superficie non è solo il guscio cosparso di zolle di una materia morta, ma la pelle di un corpo che custodisce, strato su strato, gli organismi e le forze interiori che partecipano alla sua vita».
Di una verticalità sedimentaria parla anche un altro di questi suoi pensieri, una riflessione sui tubetti di colore sfiniti, conservati da Pericoli in un’ampolla fino a prendere le sembianze di un corpo vero e proprio: «se lo si tagliasse in senso verticale e lo si esaminasse strato per strato, dentro quel corpo compatto si potrebbero provare le sedimentazioni dei miei colori prevalenti, le ore del mio lavoro, la sezione geologica della mia pittura».
Tutto sembra avere una vita organica, ma dell’organicità degli alberi che conservano nella loro carne vegetale, nei cerchi del proprio tronco, visibile il tempo che transita; così anche nelle fibre dei fogli e nelle setole dei pennelli, come nei volti e nei paesaggi, si aggrovigliano i giorni, ciascuno col suo apporto particolare, con la sua fragranza amara, sicché un vecchio pennello vive «una seconda vita in cui peli induriti e quelli che, per consunzione o vecchiaia, si sono uniti o incollati tra loro creando piccoli grumi compatti acquistano più sicurezza e incisività e stendono il colore con più potenza, solcano in maniera più profonda la materia pittorica, e lasciano di sé un’impronta più decisa, più sprezzante e rabbiosa».
La pittura deve essere «appoggiata», scrive Pericoli, cioè come costituita di fragili segni, stesi gradualmente sulla tela, lasciando affiorare le cose, non al modo di Canaletto in cui la visione del quadro è già premeditata e non fa che crescere su di sé, di una maniera stabile, matematica, dimodoché il quadro finito sembra uscire dall’intelletto dell’artista come Minerva dalla testa di Giove, tutta cinta di armi, senza infanzia, senza adolescenza. E non è questa un’altra maniera per dire: senza tempo? Il tempo, come l’esperienza, si sa, non procedono di una maniera rettilinea ma tortuosamente. I loro segni si accavallano in modo sfaccettato e imprevedibile.
Ma in Arte a parte, questo piccolo prezioso libro di un artista così legato alla sua terra, le Marche meridionali, c’è anche qualcosa di orientale, di certo vi è nei suoi paesaggi, in cui anche piccoli frammenti costituiscono sineddochi di un cosmo. Questa la confessione a chiusura del libro: «Dipingo paesaggi perché si aprano verso di me e mi includano, dandomi il piacere di abbandonarmi al loro destino».
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