Perché sì alla scuola obbligatoria e gratuita da 3 a 18 anni. E oltre
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Perché sì alla scuola obbligatoria e gratuita da 3 a 18 anni. E oltre

Scuola Cresce la complessità e il bisogno di conoscenza, occorre combattere le diseguaglianze. E «prima cominci, meglio va dopo» . Chi ha paura del cambiamento?
Pubblicato circa 2 anni faEdizione del 30 agosto 2022

Sembra che il diritto all’istruzione sia un tema pacificato, ormai non più oggetto di frattura politica tra destra e sinistra, ma appena emergono proposte che incidono sull’allocazione delle risorse e sulla distribuzione delle opportunità la frattura emerge con tutta la sua potenza. Lo si è visto con le reazioni scomposte alla proposta di Enrico Letta sulla scuola obbligatoria e gratuita da 3 a 18 anni, che, evidentemente, porta con sé una visione della conoscenza antitetica a quella, galoppante in anni recenti, dell’istruzione di eccellenza per pochi, del merito come foglia di fico per celare le diseguaglianze, della privatizzazione della scuola e dell’università. E porta con sé l’idea di una responsabilità collettiva sui più piccoli. Nessuno vuole strappare “i figli ai genitori”, lo diciamo con affetto a Mara Carfagna, è una questione di preferire le opportunità alla predestinazione sociale.

Quello che si è scatenato è in fondo il più politico dei dibattiti e da qui le reazioni scomposte: ampliare obbligo e gratuità della scuola è una proposta egualitaria. 

CRESCE LA COMPLESSITA’ DEL MONDO CRESCE LA DOMANDA DI CONOSCENZA

Più di settanta anni fa le madri e i padri costituenti assicuravano la scuola “obbligatoria e gratuita per almeno otto anni”. Era un passaggio fondamentale, che ha consentito a mio padre e ai bambini degli anni ‘40 e ‘50 di non rimanere contadini nelle terre lavorate dai genitori, ma di costruire il proprio percorso di emancipazione e alle donne di rafforzare il proprio cammino nella lotta per la parità. Settanta anni e una rivoluzione tecnologica dopo, la domanda di conoscenza è ancora più importante. La produzione di valore (economico, sociale, relazionale) è fondata sulla conoscenza; l’autonomia individuale e collettiva dipendono dalla capacità di decodificare il mondo e le sue complessità; il sapere è potere molto più di prima. Non è un’ipotesi, è una certezza rilevata dai dati sull’occupazione, sulla distribuzione del reddito, sulla partecipazione politica. 

PRIMA COMINCI, MEGLIO VA DOPO. LA SCUOLA DELL’INFANZIA GARANTISCE MIGLIORI ESITI SCOLASTICI E PROFESSIONALI 

Chi accede all’istruzione nei primi anni di vita, chi va alla scuola dell’infanzia, ha traiettorie migliori sia scolastiche che professionali. Ne dà conto ormai da anni la letteratura economica, sociologica e pedagogica, così come lo rilevano le indagini più recenti, dai report di Save the Children a quelli della Fondazione Agnelli.  

Come sostenuto dal Premio Nobel per l’Economia nel 2000, James Heckman, i benefici dell’investimento nella cura delle persone diminuiscono al crescere dell’età. Gli investimenti nel periodo prescolare sono infatti perequativi e strategici sia in termini sociali che economici: hanno costi inferiori perché non devono modificare situazioni già problematiche e sono in realtà risparmi rispetto agli ingenti costi di riduzione del danno che si rendono necessari quando il problema si manifesta. 

Un’ampia letteratura, così come i dati OCSE PISA fin dal 2009, rileva che i bambini che frequentano la scuola dell’infanzia hanno maggiori probabilità proseguire con successo il percorso di istruzione formale, fino all’Università, e tendono ad avere un percorso educativo più lungo. E’ sulla base di queste evidenze che tutte le istituzioni nazionali e internazionali, nonché le organizzazioni impegnate sul tema, indicano come prima misura necessaria per contrastare gli svantaggi di partenza, la garanzia che tutti i bambini abbiano accesso a opportunità di apprendimento prescolare di alta qualità, poiché questa “svolge un ruolo importante nel ridurre le disuguaglianze socio-economiche esistenti all’inizio del percorso scolastico” (UNICEF, 2018 Partire Svantaggiati. La disuguaglianza educativa tra i bambini nei paesi ricchi, Roma).

COMBATTERE LE DISEGUAGLIANZE 

Anche nella battaglia più importante, quella contro la dispersione scolastica, che coinvolge tutta la comunità educante, la misura più efficace resta la prevenzione (early intervention). Agire precocemente per creare un ambiente di apprendimento accogliente, che punti sulla cooperazione e non sulla competizione, che consideri l’errore parte preziosa del processo, che restituisca un’immagine di sé positiva e adeguata: tutte le scelte pedagogiche e didattiche che favoriscono l’inclusione e il successo formativo vanno attuate dai primi anni di scuola. Perché sono i primi anni di vita quelli in cui si trasmettono e radicano le diseguaglianze; perché sono i primi anni di vita a determinare le opportunità: il cervello è più plastico, si apprende prima e meglio, si sedimentano saperi e curiosità che orientano tutto il percorso successivo. 

Come noto, inoltre, le differenze socio-economiche tra le famiglie sono determinanti nei risultati scolastici dei bambini e nelle bambine. Questo ci porta alla cristallizzazione dell’ingiustizia, all’ereditarietà degli esiti scolastici e lavorativi che emerge in tutti i rapporti, da Open Polis, a Save the Children, alle ricerche di Mapparoma. In definitiva, pur con tutte le possibili contraddizioni, il sistema di istruzione pubblica è ancora il più potente pareggiatore di opportunità su cui possiamo contare.

Senza dimenticare che insieme alle diseguaglianze sociali, l’istruzione obbligatoria e gratuita da 3 anni avrebbe il grande merito di contrastare le diseguaglianze di genere, dato che i carici di cura sono ancora largamente sulle spalle delle donne.

CHI HA PAURA DELL’OBBLIGO, CHI HA PAURA DELLA SCUOLA?

Dopo la proposta del segretario del PD di sono levate voci scomposte insieme a informazioni distorte. La scuola infanzia in Italia è già frequentata da più dell’89% dei bambini dai 3 ai 6 anni, ma un fattore non trascurabile è che spesso proprio chi si trova in condizione di forte marginalità sociale sceglie di non usufruirne. L’obbligo incoraggerebbe un cambiamento culturale e ovviamente sarebbe un’assunzione di responsabilità anche per lo Stato, a quel punto vincolato a destinare programmi e risorse per garantirne l’accessibilità a tutti e tutte. Perché fa paura?

Chi sostiene che quella di Letta sia una proposta “sovietica”, perché “l’educazione è compito della famiglia” accetta e avalla le enormi diseguaglianze esistenti. Sembra incredibile dover ricordare che non è una scelta nascere in una famiglia più attrezzata culturalmente, più fortunata, o più presente.

Peraltro la scuola è da sempre alleata delle famiglie, favorisce la possibilità delle donne di restare nel mondo del lavoro e, accompagnata da un investimento sulla qualità dell’offerta formativa, potrebbe essere scuola anche per i genitori, creare spazi di apprendimento e condivisione anche per loro, affiancandoli e supportandoli nella complessità del lavoro educativo cui non si è mai preparati. Inoltre, una società democratica si dovrebbe fondare su una responsabilità collettiva degli adulti riguardo alle bambine e ai bambini e alle loro opportunità. Questa è poi una delle grandi fratture tra opzioni politiche storicamente opposte: chi riconosce solamente il primato dell’individuo e chi invece crede in una comunità solidale.

Anche quella per l’estensione dell’obbligo ai 18 anni è una battaglia di civiltà, affiancata a quella contro la dispersione scolastica e alla costruzione di una scuola che, agendo in sinergia con le altre istituzioni sociali e culturali, si faccia carico di non lasciare indietro nessuno e sostenere gli alunni più in difficoltà e i loro contesti di provenienza. Stare a scuola significa non stare in strada, moltiplicare le proprie possibilità, condividere anni cruciali con i propri pari e adulti significativi. Certo, la sfida è la capacità della scuola di tenere agganciati a sé i ragazzi e le ragazze, di essere stimolante e abitabile per diverse intelligenze e stili di apprendimento. Per questo l’obbligo a 18 anni significa una grande responsabilità per la scuola, per l’innovazione e per il cambiamento. 

OBBLIGO DA 3 A 18 E MOLTO ALTRO. LE UTOPIE CONCRETE E NECESSARIE.

Rendere la scuola obbligatoria e gratuita da 3 a 18 anni, come ha proposto il segretario del Partito Democratico, è addirittura una proposta cauta in un mondo in cui la conoscenza è un diritto fondamentale. E’ un’idea maturata nei movimenti studenteschi, che da sempre pongono il tema dell’accesso e del successo scolastico come inestricabilmente connessi, cresciuta in una parte del pensiero femminista e su cui, da sinistra, abbiamo costruito nel 2018 un progetto visionario ma necessario: “la gratuità dell’istruzione dai nidi all’Università” che fu oggetto di non poca discussione nella campagna elettorale e che, tra le altre cose, prevedeva un investimento straordinario su nuovi nidi e l’abbattimento/azzeramento delle rette. Tutti impegni che sembravano impossibili e che 4 anni dopo hanno preso la forma degli investimenti del PNRR e ispirato le politiche educative che stiamo realizzando a Roma. 

Nidi e università gratuite, tempo pieno garantito anche dove (purtroppo in larga parte del Mezzogiorno) non esiste, formazione continua per il personale, diminuzione del numero alunni per ogni classe, ma anche innovazione didattica, maggiore relazione tra scuola e Università, scuole aperte oltre l’orario curriculare come poli civici e culturali di costruzione di comunità. Scuole dove c’è spazio e tempo anche per l’educazione affettiva, per la decostruzione degli stereotipi di genere, per l’ascolto dei ragazzi e delle ragazze: veri e propri punti di riferimento nei territori, che influenzano i contesti in cui si trovano con occasioni di cultura e di supporto.

IN CONCLUSIONE

Queste alcune delle necessarie grandi sfide che sia affiancano alla scuola obbligatoria e gratuita da 3 a 18 anni. E a chi pensa che non si può fare perché non ci sono i soldi, perché siamo troppo indietro, perché siamo in Italia, val la pena di ricordare che di sguardo corto si può morire. 

Vale la pena ricordare che uno dei più grandi obiettivi dell’educazione è accendere quella che l’antropologo Appadurai chiama “capacità di aspirare”, quella che Cesare de Florio La Rocca del Progetto Axé chiama “pedagogia del desiderio”: la possibilità di immaginarsi in una situazione diversa da quella in cui si è. E’ la principale deprivazione che subiscono i ragazzi e le ragazze nei contesti di maggiore marginalità, non avvertire più la mancanza, perché desiderare viene dal latino de-sidera: mancanza di stelle. 

Si desidera quando si avverte una mancanza. Accendere, o riaccendere, quel desiderio è tra le principali responsabilità dell’educazione, e forse anche della politica.

*Assessora alla Scuola di Roma Capitale

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