Perché nessuno protesta con i sauditi. Intanto il Qatar liquida l’Opec
Armi e petrolio Realpolitik sull’orlo dell’abisso: pieghiamo la testa di fronte alle sanzioni Usa all’Iran, indispensabile nemico dei sauditi, e stringiamo le mani a un omicida. Doha a tutto gas, dopo 57 anni via dall'organismo dei paesi produttori di greggio
Armi e petrolio Realpolitik sull’orlo dell’abisso: pieghiamo la testa di fronte alle sanzioni Usa all’Iran, indispensabile nemico dei sauditi, e stringiamo le mani a un omicida. Doha a tutto gas, dopo 57 anni via dall'organismo dei paesi produttori di greggio
A quasi 40 anni dalla rivoluzione di Khomeini non sono gli ayatollah iraniani, sotto sanzioni Usa, ad apparire in bilico ma la casata dei Saud, maggiore cliente arabo dell’Occidente. Forse è per questo che i media, oltre che i leader mondiali, sono senza vergogna e sotto censura.
Al G-20 di Buenos Aires è stato omaggiato il mandante di un assassinio, il principe ereditario Mohammed bin Salmam (MBS), mentre con l’Iran, per volere degli americani non si possono più avere rapporti commerciali.
Ma c’è anche malessere nei rapporti tra prìncipi ed emiri come sottolinea l’uscita del Qatar dall’Opec, un evento quasi epocale visto che vi entrò del 1961. Oggi se ne va più che per ragioni economiche per i dissidi tra i Saud e gli Al Thani sui Fratelli musulmani che ha portato nel giugno 2017 all’embargo dei Paesi del Golfo contro il Qatar, uno dei clienti dell’Italia cui abbiamo venduto in poco più di un anno tra navi, elicotteri e aerei circa 10 miliardi di euro e anche uno dei maggiori investitori nell’immobiliare, nella moda e nel turismo.
LE INQUIETUDINI DEL GOLFO ci riguardano da vicino. Da Buenos Aires è venuta una lezione: un ricco omicida, che distribuisce commesse all’industria bellica, vale più di un trattato e delle risoluzioni dell’Onu.
È la nuova versione, macabra, della realpolitik che spazza via con MBS, Al Sisi e Assad gli ultimi residui delle laceranti e contraddittorie primavere arabe. Rivolte che hanno preceduto la restaurazione di raìs e dittatori funzionali ai nostri affari. Adesso manca soltanto la Libia, con il generale Haftar, i gheddafiani e Seif Islam, il figlio del Colonnello che non dispiace neppure ai russi, mentre a Damasco stanno per riaprire le ambasciate delle monarchie del Golfo, che con i loro quattrini possono garantire la ricostruzione siriana una volta risolto il nodo dei jihadisti a Idlib, da loro stesse finanziati contro il regime alauita.
Ecco perché a Buenos Aires apparivano tutti _ tranne Erdogan e Trudeau _ così cordiali con il prìncipe Bin Salman, mandante secondo la Cia dell’assassinio del giornalista Jamal Khashoggi. Ma al G-20 i leader mondiali sono corsi a stringergli la mano per il petrolio e le commesse belliche. Il Trono delle Due spade ci riporta al Medio Evo. Ma qui nessuno protesta mai?
PUTIN SI È CONGRATULATO battendogli il cinque entusiasta, come se avesse segnato un goal ai mondiali di Mosca, dove per altro il prìncipe era in tribuna d’onore. Sono d’accordo su tutto: sul mantenere alti i prezzi del petrolio, tagliando la produzione, sulle commesse militari, tra cui il sistema missilistico di difesa S 400 che vogliono anche la Turchia, paese Nato, e il Qatar.
Trump ha declinato una bilaterale ma ha scambiato con lui sorrisi e piacevolezze: ha già detto e ripetuto che non ha nessuna intenzione di lasciare ad altri lo storico ruolo di Washington come grande protettore di Saud ai quali vende centinaia di miliardi di armi e che sostiene nella guerra in Yemen, oltre che come storico baluardo anti-Iran nel Golfo.
Ma anche Macron, che pure si è detto preoccupato per la vicenda Khashoggi, si è intrattenuto con l’erede al trono: a breve andrà a Riad per difendere 14 miliardi di euro di commesse francesi. Stessa linea del premier Conte, che non ha niente da dire su nulla figuriamoci sulle bombe che la tedesca Rvm produce in Sardegna per i sauditi.
ALL’ARABIA SAUDITA, secondo importatore di armi al mondo, terzo per bilancio alla difesa dopo Usa e Cina, l’Europa ha venduto 60 miliardi di dollari di armi in 15 anni. Quando i nostri capi di stato e di governo pronunciano, a proposito di guerre che durano anni con decine di migliaia di morti come in Yemen, che «la soluzione è soltanto politica», si tratta di un’impietosa bugia: siamo noi ad alimentare conflitti che producono fatturati e posti di lavoro. Un’obiezione subito rintuzzata da un’altra frase significativa: «Ma volete che siano gli altri a vendere armi al posto nostro?».
Ecco perché non protestiamo quando omaggiano un assassino: rischiamo di diventare impopolari e passare per ingenui pacifisti.
MA OLTRE A CALCOLI DI CASSA c’è dell’altro che ci riporta al 1979. Con i prezzi del petrolio deboli, il wahabismo come collante ideologico del Regno e fonte di legittimità dei Saud, il 70% della popolazione sotto i 30 anni, l’Arabia Saudita – perdente su tutti i fronti dallo Yemen alla Siria – sembra destinata a una destabilizzazione simile a quella che investì l’Iran, che toglierebbe di mezzo i Saud come avvenne con lo Scià, magari rimpiazzati da un regime integralista sullo stile del califfato dell’Isis o da una sanguinosa anarchia, cosa che temono pure gli iraniani e gli israeliani.
Come ha scritto l’ex ministro tedesco Joschka Fischer, «i modernizzatori alla MBS sanno che il loro successo dipende dal ridimensionamento drastico del wahabismo e la sua sostituzione con un nazionalismo saudita».
Ecco alcuni dei motivi perché pieghiamo la testa alle sanzioni Usa all’Iran, indispensabile nemico dei sauditi, e stringiamo le mani a un omicida. Una ragionevole realpolitik che cammina sull’orlo dell’abisso.
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