Lavoro

Perché l’occupazione aumenta ma i salari restano fermi

Perché l’occupazione aumenta ma i salari restano fermiAl lavoro in un data center – Getty Images

Istat Lavoro, a che punto siamo della policrisi. a coda lunga del rimbalzo tecnico del Pil ha provocato un record del tasso di occupazione, i dati vanno incrociati con la qualità del lavoro e delle retribuzioni

Pubblicato quasi 2 anni faEdizione del 2 dicembre 2022

L’aumento dell’occupazione nel lavoro dipendente registrato ieri dall’Istat anche a ottobre è la coda lunga del rimbalzo tecnico postcovid del Pil e, nello specifico, potrebbe essere stato trainato dalla riduzione della cassa integrazione che ha spinto gli occupati a tempo indeterminato over 50, maschi e femmine, a tornare al lavoro. Va comunque sempre tenuto conto che, in queste rilevazioni statistiche, non si discute della natura del lavoro prodotto, né del significato di «contratto a tempo indeterminato». Come sappiamo, dal Jobs Act di Renzi e del Pd in poi (2015), il significato di questo istituto è significativamente cambiato nel senso deteriore del termine.

Dal punto di vista della quantità del lavoro l’Istat ha certificato un dato mensile (+82 mila occupati) e annuale (+496 mila occupati), i dipendenti sono circa 18 milioni 250 mila lavoratori. Logicamente il tasso di disoccupazione e inattività sono scesi al 7,8% e al 34,3% rispettivamente. Rispetto a settembre, il tasso di occupazione è salito al 60,5%, un (valore record dal 1977, primo anno della sere storica. Ma anche in questo caso il dato va relativizzato. Rispetto all’economie capitalistiche paragonabili a quella italiana, si tratta del tasso di occupazione tra i più bassi. Uno degli effetti di un mercato del lavoro tra i più selvaggi e arretrati d’Europa dove i salari sono fermi da trent’anni e la produttività del lavoro è una delle più basse.

Questi aspetti emergono se si inizia a fare un’analisi «qualitativa» del lavoro prodotto. Da ultimo lo ha ricordato un rapporto del Forum Disuguaglianze e diversità secondo il quale dal 1990 al 2020 c’è stata una riduzione del salario medio di circa tre punti percentuali. In altre economie come quella coreana, irlandese, Usa o britannica è aumentato tra il 50 e il 90%. In un articolo sulla rivista «Il Mulino» Valeria Cirillo, Matteo Lucchese e Mario Pianta hanno ricordato che questa situazione ha radici profonde nel declino produttivo, nei forti divari di genere e territoriali, nel ritardo nei livelli di istruzione, nella crescente diffusione di forme di lavoro precario e precarissimo.

Sono aspetti fondamentali, del tutto invisibili se qualcuno li avesse proprio voluti cercare tra i titoli urlati ieri sui siti di informazione online. Tutti replicavano in fotocopia i dati nudi e crudi senza un minimo di contestualizzazione. Ma questa è davvero la norma. Ci siamo abituati da quando l’informazione statistica del lavoro è diventata la fonte della società dello spettacolo. E non si contano i governi che hanno speculato su uno zero virgola in più congiunturale. Quello dell’estrema destra postfascista e leghista sembra distratto. Altri avrebbero costruito un can can. Non è detto che accada di nuovo.

I consigli di mema

Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento