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Perché l’industria degli armamenti non conviene al Paese

Perché l’industria degli armamenti non conviene al PaeseFabbrica di armi in Sardegna

Governo Produrre armi non è utile a nessuno, neanche dal punto di vista economico

Pubblicato più di 3 anni faEdizione del 24 marzo 2021

Lo scrivevamo proprio un anno fa dalle pagine de il manifesto: mentre l’Italia chiudeva per il Covid-19 le fabbriche di armamenti potevano decidere autonomamente se rimanere aperte grazie ad una concessione del governo che arrivava a definirle «apicali». Lo confermano gli elementi portati all’attenzione del grande pubblico dalla puntata di Presa Diretta di questo lunedì: la «dittatura delle armi» riesce a proteggere con qualsiasi governo gli affari militari. E sicuramente non è nei programmi dell’esecutivo di Mario Draghi e del confermato Lorenzo Guerini un cambio di rotta.

Il ministro è stato chiaro nelle sue linee programmatiche presentate al Parlamento: bisogna agire «valorizzando pienamente l’intero potenziale esprimibile dall’Industria della Difesa, di cui è essenziale assicurare lo sviluppo ed il posizionamento sul mercato europeo ed internazionale»,. L’obiettivo sarebbe «impiegare le risorse della Difesa per sviluppare pienamente l’intero potenziale esprimibile dall’Industria di settore, attraverso una rinnovata sinergia», anche e soprattutto in questa fase delicata ritenendo «fondamentale investire nel pieno rilancio dell’industria della Difesa, non solo quale settore trainante dell’economia ma (…) in quanto presidio di sovranità, libertà, sicurezza e prosperità per il futuro del Paese». Tralasciando l’immagine di armi viste come presidio di «libertà e sicurezza» è importante anche domandarsi se sia così vero anche il collegamento con la «prosperità» dato sempre troppo facilmente per scontato. E troppo spesso utilizzato come scusante per giustificare scelte distruttive.

Partiamo dal fatturato. Secondo uno studio del 2018 realizzato da Ambrosetti in collaborazione con Leonardo il comparto italiano di Aerospazio, Difesa e Sicurezza varrebbe nel complesso 13,5 miliardi di euro all’anno. Secondo Aiad (la Confindustria «militare»,) il totale delle aziende di questo settore svilupperebbe un fatturato di 15,5 miliardi. Altre stime arrivano ad una quota di 16,2 miliardi. Dunque, approssimando per eccesso (e non tutte le aziende del comparto si possono considerare esclusivamente militari), si può considerare una produzione totale di 17 miliardi tutta stimata pre-Covid. Se la confrontiamo con il Pil del 2020 (già fortemente impattato dalla pandemia) si arriva di poco a superare la misera quota dell’1%, che in realtà è più verosimilmente uno 0,9% in condizioni normali. Davvero stiamo parlando di un’industria «fondamentale e insostituibile» su cui puntare con investimenti pubblici robusti e per la quale chiudere un occhio (o forse due) dal punto di vista etico e delle norme da rispettare? Lo stesso si può dire per l’export, da sempre magnificato come elemento di valore da parte dell’industria militare ma che alla prova dei dati non è così significativo. Infatti non tutto l’export delle aziende con capitale tricolore è davvero «italiano»: soprattutto le più grandi hanno una parte preponderante della produzione fuori dai confini nazionali (ad esempio Leonardo dice che solo il 16% dei propri ricavi è basato in Italia).

Limitandoci a quello militare abbiamo un dato fissato dai circa 3 miliardi certificati dalla Relazione al Parlamento della legge 185/90, che possiamo arrotondare a 3,5 valutando che non tutte le vendite di armamenti passano per quella strada (e possibili slittamenti temporali, tanto è vero che sempre Leonardo ha dichiarato di aver esportato da sola 2,9 miliardi di prodotti militari nel 2019). Anche in questo caso stiamo parlando di cifre residuali rispetto al totale di circa 480 miliardi di euro di «made in Italy», uscito dalla Penisola: poco più dello 0,7%. Infine i dati sull’occupazione principale forma di «ricatto», – soprattutto in alcune aree del Paese – per costringere la politica ad assecondare l’economia armata. Le varie stime (sempre di fonte industriale) convergono più o meno su 50.000 occupati diretti e 200-230.000 se consideriamo un non meglio precisato «indotto» (sicuramente peraltro non solo militare). Stiamo parlando di «ben» lo 0,21% (o 1% nel caso dell’indotto) di tutta la forza lavoro italiana a fine 2020. Non certo la parte preponderante degli occupati in Italia, che ad esempio per la sola piccola e media impresa ammontano a qualche milione.

E allora perché continuare ad ostinarsi a trovare una «giustificazione economica» per il sostegno incondizionato all’industria delle armi, quando risulta evidente che soprattutto valutando il medio periodo la spesa militare è infruttuosa anche da quel punto di vista? Lo dimostrano studi condotti negli Usa (dove il moltiplicatore è vantaggioso per il militare, visti i budget mostruosi del Pentagono) per cui ogni milione di dollari speso nella difesa porta a meno di 7 occupati, mentre la stessa cifra nell’energia pulita ne produrrebbe poco meno di 10, nell’educazione di base oltre 19, nell’educazione superiore più di 11 e nella cura sanitaria oltre 14. Dunque, a chi giovano gli investimenti armati? Al Paese nel suo complesso sicuramente no.

L’autore è attivista della Rete italiana Pace e Disarmo

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