Perché la plastic tax è cosa buona e giusta
Anche stavolta Confindustria non si è smentita. Appena si è concretizzata la proposta del governo sulla plastic tax sono arrivati puntuali gli strali degli industriali che si sono lamentata del […]
Anche stavolta Confindustria non si è smentita. Appena si è concretizzata la proposta del governo sulla plastic tax sono arrivati puntuali gli strali degli industriali che si sono lamentata del […]
Anche stavolta Confindustria non si è smentita. Appena si è concretizzata la proposta del governo sulla plastic tax sono arrivati puntuali gli strali degli industriali che si sono lamentata del balzello a scapito di imprese e consumatori.
Altrettanto puntuali e scontate sono state le critiche aspre da parte di Mineracqua. Sì, proprio quel settore produttivo che a fronte di ridicoli canoni di concessione (18 milioni di euro l’anno) preleva acqua minerale che poi rivende a prezzi che garantiscono alle società che la imbottigliano fatturati a nove cifre (2,8 miliardi di euro annui), producendo rifiuti plastici che solo per un terzo delle quantità vengono riciclati.
L’industria italiana sta alimentando una confusione sulla plastic tax di cui faremmo volentieri a meno. Stiamo parlando, infatti, di una questione davvero sfidante a livello internazionale, vista l’importanza che la stessa Europa le riserva, chiedendo a tutti i paesi membri di intervenire, anche per fronteggiare la seconda emergenza ambientale globale dopo la crisi climatica: la presenza dei rifiuti plastici nell’ambiente, a partire da quello marino.
Vale la pena mettere ordine all’acceso dibattito politico sul tema. La tassa sulla plastica è uno strumento utile ma deve essere modulare e non lineare. Ha senso prevedere un allargamento del bacino di applicazione a tutti i manufatti in plastica e non solo agli imballaggi (anche alla luce dei risultati raggiunti dal sistema nazionale sugli obiettivi percentuali di recupero, addirittura in anticipo rispetto alle scadenze previste dalle direttive europee). Deve essere diversificata perché non avrebbe senso riservare lo stesso trattamento fiscale per le plastiche irriciclabili, che vanno più che tartassate, e per quelle riciclate, che invece devono essere premiate (anche con strumenti già ampiamente sperimentati con successo in altri ambiti ambientali, come il credito di imposta per promuovere gli acquisti verdi).
Così come si dovrebbe tassare l’usa e getta (che dovremo ridurre in base alla nuova direttiva europea sulla plastica monouso approvata all’inizio dell’anno), mentre non ha alcun senso farlo per i prodotti plastici riutilizzabili e per quelli compostabili. Se si usa la tassazione lineare, uguale per tutti i manufatti in plastica, si disattende il principio comunitario «chi inquina paga».
Se il governo opta per un solo criterio di pagamento della plastic tax, rinuncia allo strumento della leva fiscale per promuovere la riconversione ecologica del settore, che sempre di più deve essere orientato verso l’innovazione di processo e di prodotto e la riduzione degli impatti complessivi del sistema.
Se vogliamo davvero che l’Italia mantenga la sua leadership storica sulla produzione della plastica innovativa, occorre andare oltre le polemiche sterili dei giorni scorsi. Siamo stati il paese che ha inventato il polipropilene (il Moplen di Gino Bramieri in Carosello) negli anni ’60 e le bioplastiche compostabili prodotte da scarti vegetali e rinnovabili negli anni ’90. È auspicabile da parte del mondo industriale italiano un altro scatto di orgoglio e di innovazione che, partendo da una nuova tassazione sulla plastica, permetta al paese di mantenere quella leadership nel settore che nel passato ci ha visti primeggiare a livello mondiale.
* presidente nazionale di Legambiente
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