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Perché il Decreto è un passo falso nel passato

Perché il Decreto è un passo falso nel passatoUn'opera di Jeffrey Smart

Sicurezza sul lavoro Con urgenza, nella forma del Decreto, si affida la vigilanza all’Inl, che non lo esercita da 40 anni, e dunque, se va bene, gli effetti si vedranno tra qualche anno

Pubblicato quasi 3 anni faEdizione del 12 novembre 2021

L’allarme per l’aumento delle morti sul lavoro ha indotto il governo, a significative modifiche al Testo unico sulla salute e sicurezza nei luoghi di lavoro n. 81/2008. Credo che per la prima volta si senta il bisogno di intervenire con un Decreto Legge.

Uno strumento (da convertire in legge entro 60 giorni) che può essere utilizzato solo nei “casi straordinari di necessità e urgenza”, secondo la nostra Costituzione. Ma nei giorni dell’approvazione del decreto non era accaduto niente di così grave o urgente che ne giustificasse l’emanazione. Ciononostante, il governo ha attribuito i compiti di vigilanza nei luoghi di lavoro all’Ispettorato Nazionale del Lavoro (Inl), affiancandolo ai servizi di prevenzione delle Asl cui già erano stati assegnati dalla legge 833/78. Le norme del decreto, che si applicano immediatamente, hanno creato più di un imbarazzo, dal momento che l’Inl non ha potuto improvvisare le specifiche competenze necessarie per la vigilanza sulle imprese, non esercitandole più da circa 40 anni.

Dunque ‘con urgenza’ si è adottato un provvedimento i cui effetti si vedranno, ad essere ottimisti, tra qualche anno: giusto il tempo per bandire e concludere i concorsi per le assunzioni del personale (oggi drammaticamente insufficiente anche solo per i controlli sul lavoro nero o sulle violazioni del rapporto di lavoro), avviare i neoassunti alla necessaria formazione in materia di vigilanza e far acquisire loro quel minimo bagaglio di esperienza che garantisca qualche risultato sul fronte della sicurezza per i lavoratori.

Ciò cui occorreva con urgenza porre rimedio era, invece, la situazione di abbandono nella quale i governi hanno tenuto gli organi delle aziende sanitarie incaricati della vigilanza, lasciando che gli addetti in dieci anni diminuissero del 50%, senza provvedere alle necessarie nuove assunzioni, evitando di assegnare le risorse necessarie e da ultimo, in occasione della pandemia, dirottando gli addetti ai servizi di vigilanza verso incombenze che nulla avevano a che fare con la prevenzione dei rischi sui luoghi di lavoro.

Ma non si tratta solo di un provvedimento legislativo oggettivamente inidoneo a impedire l’aumento del numero dei morti sul lavoro (che pure deve essere stata la molla che ha spinto il governo ad intervenire: cioè l’intenzione, scopertamente populista, di mostrare all’opinione pubblica che di fronte alle morti tragiche degli ultimi tempi, qualcosa si fa). In realtà è un provvedimento che opera un grave strappo nell’ordinamento giuridico vigente.

Per la prima volta dall’entrata in vigore della riforma sanitaria (legge 833/1978) la funzione di vigilanza viene scorporata dalle funzioni di prevenzione ed assegnata ad un organo diverso dal ministero della salute. Si vanifica così quella che è stata l’innovazione più dirompente della riforma sanitaria che consisteva nell’assegnare le competenze relative alla salute dei lavoratori al Servizio sanitario nazionale come una delle funzioni comprese nella prevenzione della salute del cittadino. Proprio per questo nesso strettissimo la legge assegnava al ministero della sanità le competenze sulla salute di tutti i cittadini e, in particolare la prevenzione, anche quella nei luoghi di lavoro, la cura e la riabilitazione. Questo concetto unitario di salute è stato l’asse portante di una riforma avanzata che molti paesi hanno provato ad imitare.

La vigilanza sul rispetto delle norme nei luoghi di lavoro, così scorporata dal resto della prevenzione, diventa sinonimo di repressione finalizzata a sanzionare le aziende, ma inidonea a prevenire i rischi lavorativi. Non è un caso che che lo strumento legislativo fondamentale nell’azione di vigilanza (D.lvo n. 758/94) preveda che la contestazione di ogni contravvenzione sia seguita da una ‘prescrizione’ impartita al contravventore per eliminare la situazione di rischio. Il legislatore ha preferito rinunziare alla pretesa di punire l’autore del reato, pur di prevenire ulteriori rischi per il lavoratori. Questo intimo legame tra vigilanza e prevenzione viene travolto nel nuovo decreto che assegna all’Inl la sola vigilanza sul rispetto delle norme.

Di fronte al fenomeno della crescente mortalità sui luoghi di lavoro sarebbe stata necessaria una più matura elaborazione da parte del legislatore. La quarantennale esperienza dei servizi di prevenzione delle Asl ha mostrato come siano necessarie: la formazione degli addetti, la interlocuzione con i lavoratori e i loro rappresentanti, la qualificazione dei professionisti e dei consulenti delle imprese, la capacità di valutare correttamente tutti i rischi per i lavoratori da parte delle aziende. Si tratta di esperienze che non possono essere sostituite dall’azione di repressione affidata ad un organo centrale, per ora del tutto privo delle necessarie cognizioni della prevenzione.

Se davvero si volesse intervenire in modo efficace, sarebbe necessaria una strategia della prevenzione unica per tutto il territorio nazionale, superando le differenze regionali, definendo programmaticamente gli obiettivi, le risorse e gli interventi più idonei. Una strategia nazionale della prevenzione, dunque, che è cosa diversa dalla vagheggiata istituzione dell’inutile Procura Nazionale per gli infortuni, se non altro perché le Procure si occupano della repressione dei reati e non della prevenzione.

La speranza è che nella conversione del decreto vengano eliminate le parti che allontanano l’effettiva sicurezza per i lavoratori.

*magistrato, già Procuratore Generale di Firenze

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