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Perché «facciamo come in Emilia» non porta lontano

Sinistra L’errore è considerare che la soluzione possa essere una frettolosa aggregazione elettorale tra forze con collocazioni e proposte differenti, liquidando o enfatizzando l’ultima “vittoria” o l’ultima sconfitta elettorale. Non ci sono scorciatoie. L’apertura promossa rischia di chiudersi nel perimetro della compagine di un governo che non è frutto di una strategia fondativa

Pubblicato più di 4 anni faEdizione del 5 marzo 2020

L’assemblea di Sinistra italiana, il 15 febbraio a Roma, ha provato a invertire la marcia rispetto alla frammentazione a sinistra. In molti erano stati entusiasti al Brancaccio, o avevano investito nell’Altra Europa, o in Leu o nella lista La Sinistra, o nell’unione tra Sel e chi usciva dal Pd. Tentativi che hanno acceso speranze e poi alimentato rancori e recriminazioni.

Non si tratta, solo, del tatticismo dei gruppi dirigenti. L’errore è considerare che la soluzione possa essere una frettolosa aggregazione elettorale tra forze con collocazioni e proposte differenti, liquidando o enfatizzando l’ultima “vittoria” o l’ultima sconfitta elettorale. Non ci sono scorciatoie. L’apertura promossa rischia di chiudersi nel perimetro della compagine di un governo che non è frutto di una strategia fondativa.

“Faremo come in Emilia”: tutti abbiamo avuto un sospiro di sollievo per la sconfitta della spallata salviniana, ma il risultato emiliano e la nascita del governo non risolvono i problemi, danno l’opportunità di affrontarli oltre l’emergenza. E il governo, rischia di rivelarsi un regalo alle destre senza segni di discontinuità.

Il centrosinistra, anche con la sinistra ha perso in Calabria e poco prima in Umbria e prima in Sardegna dopo aver vinto nel Lazio. E se “proiettiamo” i risultati emiliani sulle politiche abbiamo la vittoria delle destre e una “coraggiosa” nazionale al 3%. Con questi dati la spinta del Pd per un ritorno al bipolarismo e a liquidare l’anomalia del M5S è, come osserva Rangeri, irresponsabile e suicida: “Il Pd da solo, con la solita storia dei cespugli da usare per abbellire il giardino, non può affrontare e vincere le destre”.

Prima di crescere elettoralmente le destre crescono nella società. Ma questo pericolo porta a riproporre soluzioni “frontiste” che non ne affrontano le cause. L’appello al voto utile può funzionare in eterno? E può avere effetto, oltre che sull’opinione pubblica politicizzata, anche sulle profonde praterie del rancore sociale? Proprio perché il rischio è grave, non si possono pigramente riproporre coalizioni e politiche inadeguate. Se il tema non è solo la propria sopravvivenza le sinistre dovrebbero fare della propria autonomia una risorsa anche per caratterizzare l’alternativa alle destre. Altrimenti lo stesso contributo alle coalizioni si fa residuale: sia per portarle su posizioni più avanzate sia per conquistare i consensi necessari a vincere. Se la scelta, anche a livello locale, è la coalizione “a prescindere” e si subisce l’imposizione di candidature improprie, a poco servono confronti formali sui programmi. Sarebbe difficile un’alleanza vincente e convincente con De Luca in Campania e Giani in Toscana o Calenda a Roma.

Da tempo la sinistra si divide tra posizioni contrapposte ma ugualmente subalterne: rinunciare alle proprie ragioni per accedere al governo o rinunciare a cimentarsi col governo per non abdicare alle proprie ragioni. Così ogni alleanza è frutto o di ragionevolezza senza alternative o di tradimento. Non si tratta di stare o no in una coalizione ma, a partire da altri paesi come la Spagna, di costruire l’autonomia politica per imporne uno spostamento politico e programmatico.

Ma il limite dell’orizzonte di centrosinistra è anche nella radicalità della crisi. Se la crisi ambientale non è un ingrediente per condire la solita minestra, va superata la schizofrenia tra i richiami radicali dei convegni e l’appello elettorale alla ragionevolezza. Non bastano tasse sulle cannucce e agevolazioni alle imprese “green”. Prendere sul serio la crisi ecologica non chiede una ragionevole gestione dell’esistente, onesta, equa e razionale, ma un mutamento di paradigma. I limiti di una prospettiva meramente redistributiva basata sulla crescita quantitativa della produzione di merci non sono più oggetto di cassandre millenariste ma emergenza concreta su cui ricercare alternative tecnologiche e sociali.

Una discussione che antepone le alleanze e le collocazioni, magari già risolta dalla desertificazione del confronto a sinistra e dalla rassegnazione per i numeri non porta lontano.

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