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Perché è ammissibile il referendum sull’articolo 18

Si stanno diffondendo voci allarmistiche. La Corte costituzionale si starebbe orientando a non ammettere il referendum sull’articolo 18. Si indicano addirittura già i nomi dei giudici favorevoli e di quelli […]

Pubblicato quasi 8 anni faEdizione del 29 dicembre 2016

Si stanno diffondendo voci allarmistiche. La Corte costituzionale si starebbe orientando a non ammettere il referendum sull’articolo 18. Si indicano addirittura già i nomi dei giudici favorevoli e di quelli contrari.
Noi non abbiamo nessuna indiscrezione, ma pensiamo non siano attendibili queste previsioni, perché riteniamo infondate le argomentazioni giuridiche che possono sbarrare la strada al diritto costituzionalmente tutelato di votare sul quesito proposto dalla Cgil. Pietro Ichino ha sollevato due obiezioni per motivare l’inammissibilità, entrambe inconsistenti alla luce della pregressa giurisprudenza costituzionale.

Il primo profilo riguarderebbe una supposta mancanza di contenuto unitario, ma la Corte ha sempre ritenuto che fosse sufficiente l’omogeneità del quesito (anzi «una matrice razionalmente unitaria»), ammettendo in passato referendum assai articolati anche su più atti normativi. Nel caso ora sottoposto al giudizio della Consulta appare ben difficile sostenere la non omogeneità di una domanda che chiede la «reintroduzione della reintegra in caso di licenziamento senza giusta causa e sua estensione alle imprese sopra i 5 addetti»: questo il titolo posto al quesito che corrisponde al contenuto della richiesta.

La seconda presunta ragione di inammissibilità sarebbe prodotta proprio dall’ultima parte del quesito che allarga la tutela a tutte le imprese con più di cinque dipendenti. Grazie ad una sapiente manipolazione del testo l’abrogazione della norma introdurrebbe una diversa disciplina estendendo le garanzie dei lavoratori in ambiti non previsti neppure dalla precedente normativa. In tal modo, si sostiene, cambia la natura del referendum, non più solo abrogativo, così come definito dall’articolo 75 della nostra Costituzione, bensì propositivo. Un argomento polemico ma infondato.

La polemica politica sottesa è espressa in termini derisori e rancorosi. Il referendum propositivo era previsto dalla riforma costituzionale bocciata il 4 dicembre. Dunque, il sottinteso provocatorio formulato da un fautore della riforma costituzionale è il seguente: se si fosse cambiata la costituzione allora sì, ma ora non potete che prendervela con voi stessi. Tralasciamo il fatto che il referendum propositivo contemplato dalla riforma non avrebbe cambiato nulla, anzi nulla era se non un annuncio, con un rinvio ad una successiva legge costituzionale che chissà quando sarebbe stata approvata. Veniamo invece alla sostanza dell’obiezione mossa. Essa semplicemente, anche in questo caso, non tiene conto della giurisprudenza costituzionale e della realtà che ha determinato. Referendum manipolativi sono stati svolti in molte occasioni (a cominciare da quelli elettorali che manipolativi lo devono essere per necessità). Ma quel che più conta è che il giudizio su un referendum manipolativo dell’articolo 18 c’è già stato.

Nel 2003 fu ammesso, infatti, un referendum i cui effetti erano ben più «propositivi» di quelli attualmente attesi dall’abrogazione delle norme sottoposte al corpo elettorale (sentenza numero 41 del 2003). In quell’occasione il quesito aveva come sua espressa finalità quella di estendere a tutti (anche alle imprese al di sotto dei quindici dipendenti) «l’ambito e i limiti di operatività della tutela reale apprestata dall’articolo 18 della legge numero 300 del 1970».
La Corte per ritenere oggi inammissibile il quesito dovrebbe smentire questo precedente. Non vedo ragioni per farlo.

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