Jacques Gubler (Nyon 1940), scrisse Vittorio Gregotti, «è quanto di più svizzero si possa immaginare». Per il suo «pensiero diagonale» lo storico dell’architettura è stato accostato a quello di altri suoi connazionali come Max Frisch, Friedrich Dürrenmatt e Harald Szeemann.

Quando fu tradotto il suo Motion, émotions (Christian Marinotti Edizioni 2014) scrivemmo che, in modo analogo a ciò che Gramsci suggeriva per gli scritti di Croce, anche per comprendere il pensiero di Gubler occorresse studiare gli scritti «minori», in altre parole, come per il nostro filosofo, «le raccolte di articoli, postille, piccole memorie, che hanno un maggiore e più evidente legame con la vita».

Se si visita il suo sito internet ci si rende conto all’istante di questa particolarità. Nella sezione Presentations sono illustrati con figure e fotografie i suoi saggi, si coglie l’originalità delle sue ricerche sulla modernità e l’abilità con la quale incrocia le diverse discipline per interrogare luoghi, infrastrutture, tecniche, movimenti artistici o i periodi di un grande maestro dell’architettura.

DI PASSAGGIO A MILANO incontriamo Gubler per una conversazione prima che l’indomani ritorni a Basilea. Iniziamo, quindi, dal sul suo saggio forse più famoso: Nationalisme & internationalisme dans l’architecture moderne de la Suisse (trad.it. Mendrisio Academy Press/Silvana editoriale 2012), la sua tesi di dottorato discussa a Losanna con Enrico Castelnuovo del quale fu allievo. Il suo racconto parte dalle vicissitudini dei suoi due editori e si sofferma sulla grafica.

Le due edizioni, infatti, sono diverse solo per la copertina: la prima (Editions de l’Age d’Homme, Losanna 1975) è stata editata in bianco e nero, nella seconda (Edition Archigraphie, Ginevra 1988) compare il rosso per evidenziare bordi e parte del titolo. Una piccola differenza che però gli consente di spiegare che nel contrasto tra il rosso e il nero del reprint «c’è il suo saluto alla grafica sovietica».

Come ci tiene a chiarire, partendo da questa storia editoriale, «tutte le avanguardie storiche del secolo scorso dipendono dalla preesistenza del Futurismo. Occorre tenere in seria considerazione l’italianità di Marinetti e compagni, ma capire come il Futurismo cercò sempre di commemorarsi in modo permanente. Ciò rappresenta la contraddizione stessa della sua esistenza. Tutte le metafore sulla razza, come quella di rinnovarsi nel sangue, rappresentano quell’autocommemorazione del Futurismo che per essere semplici mi fa rovesciare lo stomaco».

A questo punto si può proseguire la conversazione sul tema dell’International avant-garde del quale Gubler è uno studioso esperto. «Il Futurismo non è un monopolio del gruppo milanese – continua –. Tutto si gioca sugli ismi dell’arte e dell’architettura: un’etichetta che è servita in seguito per connotare l’opera e non i movimenti. Il Futurismo sovietico è collegato al Costruttivismo che diventa un altro ismo dell’architettura. Lì nasce la domanda su quale sia il ruolo dell’artista davanti alla rivoluzione. Perché se si diventa attori della rivoluzione bisogna trovare forme adeguate per la nuova società, mentre l’artista ricerca dei prototipi per la realizzazione di una ’nuova umanità’. Già nell’Ottocento, però, alcuni artisti osservarono che la rivoluzione sociale viene sempre prima e poi il resto. Non si può fare con la pittura».

A PROPOSITO DEL PERIODO sovietico c’è da notare la straordinaria integrazione delle arti, un particolare rilevante. «Certo, anche se – precisa Gubler – tra i medium è il cinema che assolve la vera funzione di celebrare il regime sovietico con Ejzenštejn e Pudovkin che arrivano dopo, per commemorare nel 1925 con La corazzata Potëmkin, la Rivoluzione del 1905».

DOPO QUESTA INATTESA riflessione intorno alla relazione tra arte e rivoluzione, abbiamo la curiosità di conoscere come appaia dal suo osservatorio svizzero il periodo che stiamo vivendo oggi rispetto agli anni del suo insegnamento a Losanna e Mendrisio e della sua collaborazione alle riviste Casabella e Rassegna di Gregotti. «Ho avuto la fortuna di incontrare studenti che mi hanno insegnato molte cose. Alcuni li seguo ancora oggi per sapere cosa fanno. Certo, in Svizzera il conflitto tra laissez-faire e pianificazione, tra privato e pubblico si organizza in modi che già esistevano prima. Prendiamo il movimento cooperativistico che ha, per altro, una storia internazionale. Abbiamo ancora il bisogno di accompagnare il progresso sociale con l’architettura decidendo se costruire case godibili per i soci che possono beneficiare di un minimo di conforto oppure se bisogna cominciare a fare finalmente una rivoluzione prima di creare una nuova società. Torniamo a quanto detto sopra: qual è la cosa principale?».

A proposito di cooperazione bisogna anche dire quanto i suoi valori siano in crisi poiché non rispondono più nelle loro forme di solidarietà e egualitarismo alle condizioni del mercato globalizzato. Più in generale è l’organizzazione del lavoro dell’architetto che si è così trasformata fino a quasi a determinarne la sopravvivenza.

Kenzo Tange, masterplan della ricostruzione di Skopje

GUBLER TORNA però sui cambiamenti tra ieri e oggi e il dato più rilevante che riscontra è nell’eccesso di mediatizzazione dell’architettura. «Il fenomeno mediatico nasce con le esposizioni. La Biennale di Portoghesi fu l’inizio di questa necessità dell’architettura di affermare la sua differenza – spiega ancora –. Durante il periodo della pandemia abbiamo sperimentato nelle scuole lo scambio d’immagini tramite lo schermo. Ricordo che a Karlsruhe, in una sessione di esami, ho assistito all’esito di nuove tecniche di seduzione per illustrare dei progetti da remoto che mi hanno fatto riflettere sulle capacità di potere dei media, ormai dominante».

È del tutto evidente quanto questi abbiano contribuito al processo di omologazione dei linguaggi dell’architettura tanto da minarne l’identità e ciò che definiamo «regionalismi». È, tuttavia, sul binomio razionalismo/ internazionalismo che ci rivolgiamo a Gubler per capire se questo è ancora un criterio di distinzione utile nel presente.

CIÒ RIMANDA ALL’INTERESSE per il vernacolo (mai venuto meno), accanto alla fascinazione per la stereometria dello «stile internazionale».

«La dialettica che s’instaura tra questi due elementi trova una sua focalizzazione nella questione del tetto – afferma lo studioso –. Il tetto diventa il segno distintivo dallo chalet svizzero alle ricostruzioni in stile dei villaggi. Il tetto piano delle avanguardie vi si contrappone anche nei paesi nei quali ci sono problemi per realizzarlo. Il pittoresco non ha più alcun senso. Il vernacolare oggi può significare accompagnare una tradizione locale, ad esempio nell’uso di materiali come il legno. Il tetto a falda non ha più il significato delle mani giunte che pregano di Dürer, questo appartiene al nazionalismo del passato. Oggi si deve parlare d’impiego appropriato dei materiali, di sostenibilità, di economia e di clima. Il problema del clima rimanda alla durabilità dell’architettura. Quindi non c’è più dialettica tra vernacolo e internazionalismo. Ciò non vuole dire che a scopi turistici l’architettura non sia sfruttata per costruire villaggi esotici o in montagna alberghi da centinaia di stanze che evocano il blow-up dello chalet alpino: siamo entrati nell’idea di pittoresco a scopo di consumo. Allora in tutto ciò rientra l’aspetto del nomadismo tra residenza permanente e una provvisoria. Lo sfruttamento del paesaggio dipende dalla mobilità accelerata e diffusa del nomadismo praticato oggi».

A CONCLUSIONE del nostro incontro, l’ultima domanda riguarda l’«Architettura dell’indelebile», categoria con la quale Gubler ha voluto approfondire la relazione tra architettura e Shoah e che dà il titolo al suo ultimo saggio (Christian Marinotti edizioni 2018).

Si è davvero costretti all’afasia davanti ai genocidi che continuano a perpetuarsi nel mondo? «Questo tema è stato affrontato in modo perfetto da Adachiara Zevi. Vorrei dire che l’architettura ha il compito di interrogarsi su come segnare i luoghi. C’è il motivo della memoria e come spiegare l’organizzazione industriale della deportazione e dell’annientamento di milioni di ebrei, zingari, comunisti… Pochi testimoni possono ancora parlare: e dopo di loro? Abbiamo documenti e filmati, ma è sempre insufficiente ricordare attraverso il monumento perché manca una testimone che racconti. A differenza dei cimiteri di guerra, i campi di concentramento sono un’altra cosa. Possiamo segnare uno spazio, conservarlo anche lì dove non esiste come per le foibe, ma chi ne parla e come si parla di ciò che è accaduto? Ciò però porterebbe a un’altra discussione».