Per una scuola della cultura comune
Libri «Educazione democratica» di Christian Laval e Francis Vergne, per Novalogos. Il «neoliberalismo» si trova anche fra i banchi, associato a una politica di classe. Gli autori contestano alla radice l’idea dei saperi «esperti», la leva della loro strategia è la collegialità. Va dunque favorito l’autogoverno liberandolo dalla relazione con il mercato del lavoro. I fari per una nuova scuola "istituente" sono Dewey, Freinet, Freire, passando per Antonio Gramsci
Libri «Educazione democratica» di Christian Laval e Francis Vergne, per Novalogos. Il «neoliberalismo» si trova anche fra i banchi, associato a una politica di classe. Gli autori contestano alla radice l’idea dei saperi «esperti», la leva della loro strategia è la collegialità. Va dunque favorito l’autogoverno liberandolo dalla relazione con il mercato del lavoro. I fari per una nuova scuola "istituente" sono Dewey, Freinet, Freire, passando per Antonio Gramsci
Un libro importante per chi non si rassegna a una scuola trasformata in un progettificio che allena alla precarietà degli affetti, del pensiero e dell’azione. Lo hanno scritto Christian Laval e Francis Vergne, il titolo è Educazione democratica, è pubblicato da Novalogos (pp. 264, euro 16) ed è curato e tradotto da Davide Borrelli e Rossella Latempa ai quali dobbiamo in questi anni un lavoro di resistenza, conoscenza e critica della scuola pubblica trasformata radicalmente dalla politica neoliberale.
LA LETTURA di Educazione democratica permette di definire il «neoliberalismo» come un progetto capitalista basato sul determinismo economico e ispirato a una filosofia comportamentale di origine utilitarista. Da questo progetto è nata anche la pedagogia che ha inteso l’insegnamento e l’apprendimento come uno scambio tra crediti e debiti. La scuola neoliberale serve a trasformare gli studenti in «occupabili». È questo, in realtà, lo scopo dell’«alternanza scuola-lavoro» oggi rinominata «Ptco». Il caso italiano fa parte di un processo globale definito da Laval e Vergne «educazione di mercato» o «mercificazione» dell’istruzione. Il loro libro è una cassetta degli attrezzi necessaria per comprendere il significato del processo in corso e per ripensare l’educazione come esperienza democratica. Questa prospettiva dovrebbe essere considerata un’emergenza politica globale, non diversamente dalla lotta al riscaldamento climatico.
L’OBIETTIVO del libro è praticare una nuova logica dell’istituzione. Per «istituzione» Laval e Vergne intendono un rapporto dialettico tra l’istituito e l’istituente che sfugge alla cristallizzazione di un ordine trascendentale della legge. Tale rapporto produce una nuova «normatività» e modifica il rapporto tra sé e gli altri. Il «potere istituente» è stato bloccato dalla logica neoliberale che ha vincolato gli organi della deliberazione, della partecipazione e della decisione alla trasformazione della vita in un «capitale umano». Bisogna allora sbloccare il processo, ripensare concetti importanti come l’«autonomia» e usarli in maniera diversa.
È un compito ambizioso. Come realizzarlo a partire dalla scuola? Bisogna ripensare il ruolo dell’«educazione». Questa prassi dovrebbe permettere la maturazione della capacità di connettere e moltiplicare le forze dei docenti e degli studenti. Il problema della didattica è politico, non tecnico o individuale, come invece ritiene l’approccio manageriale della «pedagogia neoliberale». L’obiettivo di una nuova pedagogia «istituente», così la definiscono gli autori, è la collegialità. Nella scuola gli eletti ai ruoli dirigenziali non sarebbero esonerati dalla didattica. Il loro mandato sarebbe revocabile e affidato a «stati generali» convocati periodicamente. Gli studenti non sarebbero deresponsabilizzati come oggi, bensì coinvolti nell’attività di un «co-governo» come i genitori. Gli autori parlano di un ridimensionamento degli istituti e della loro diffusione sul territorio. Andrebbe diminuito il numero degli allievi per classe, unificando i cicli scolastici. E si può fare a meno delle classifiche che mettono in competizione. Va abolito il voto come strumento di selezione.
ALLA SCUOLA-CASERMA, alla scuola-impresa o alla scuola-comunitaria Laval e Vergne contrappongono la «scuola del comune». Per «comune» non intendono il municipio, bensì una prassi comunista. L’obiettivo è creare un governo autonomo, cioè darsi autonomamente una norma e sperimentare le sue possibili trasformazioni. Nella scuola ciò potrebbe permettere di intrecciare pratiche separate dalla divisione sociale del lavoro: l’organizzazione, la produzione e la trasmissione dei saperi (l’istruzione), l’educazione (i modi di governare i rapporti con gli altri) e la formazione (i modi attraverso i quali un soggetto si dà le regole e agisce con gli altri). Riunificare tali pratiche nell’insegnamento, e nell’apprendimento, permetterebbe di sviluppare ciò che rende democratica una democrazia: l’auto-riflessione, la cooperazione e l’auto-governo in un agire collettivo.
Studenti, docenti, genitori e personale amministrativo potrebbero connettere la loro istituzione a quelle del «governo della prossimità». Con questa categoria si intende un nuovo modo di governare i servizi pubblici gestiti dalle municipalizzate dall’acqua all’energia. La scuola sarebbe inoltre associata a una rete federativa multilivello e decentrata che aspira a distribuire i poteri e a praticare l’autogoverno attraverso, e oltre, gli Stati-nazione. Questo è il principale apporto di Laval e Vergne al dibattito sul «comune» e sui «beni comuni» al quale hanno partecipato Pierre Dardot, Michael Hardt e Antonio Negri, o Stefano Rodotà.
QUESTA IMPOSTAZIONE non sovrappone l’idea di scuola pubblica a quella statale. «È pubblica la scuola che afferma la libertà di apprendere e insegnare nell’interesse generale» e «non chiede la sottomissione di studenti e docenti al comando dell’autorità», cioè al governo. Gli autori recuperano l’idea originale di Marx alla base di ciò che in Italia si chiama «la scuola della Costituzione». Ma questa idea di «autonomia» è ostaggio dei corporativismi, dell’ideologia del professionalismo e della riduzione burocratica e manageriale che trasformano le «istituzioni del comune» in entità autoreferenziali.
Laval e Vergne si misurano con altro problema: la differenza tra «l’uguaglianza di ciascuno rispetto alla scuola» e l’«uguaglianza di tutti attraverso la scuola». In altre parole, l’origine sociale condiziona gli studi. Da un lato, assicura l’uguaglianza; dall’altro lato, discrimina i ceti popolari. E persiste la divisione tra il lavoro «manuale» e quello «intellettuale» alla quale corrispondono una sessuale e un’altra di cittadinanza.
IL DISINCANTO che ha travolto la scuola si è consolidato perché non è stata trovata una soluzione a questa contraddizioni. Il problema , non è l’eccessiva libertà e democrazia, come sostengono i reazionari e i neoliberali. Nella scuola, invece, c’è ancora troppa poca democrazia. Bisogna trovare i modi per estendere l’autonomia e l’autogoverno e non limitarli, e stigmatizzarli, come fanno coloro che inseguono il fantasma del Sessantotto. Dal punto di vista politico la proposta contenuta in questo libro è un rovesciamento dell’ordine del discorso dominante e può essere usato per costruire un nuovo punto di vista sulla società.
NON ESISTE «emancipazione», sostengono Laval e Vergne, senza emancipazione dallo Stato, dalla religione, dal capitale. Giusto, così è stato nella storia dell’istruzione moderna. Tuttavia anche l’idea di «emancipazione» andrebbe criticata. Perché è legata a quella di proprietà sin dal diritto romano ed è fondata sul legame tra il capitalismo e l’idea utilitaristica di libertà. Una parte del dibattito francese si è concentrato sul rilancio di questa categoria, ma sembra ignorare il ruolo svolto dai pensieri della liberazione che hanno criticato la prospettiva «emancipazionista». Si ritiene che la liberazione sia inficiata da una metafisica che sostanzializza l’utopia. La liberazione è invece una prassi che non si esaurisce nella realizzazione di uno status come l’emancipazione.
In ogni caso, Laval e Vergne recuperano la storia della pedagogia materialistica e associano John Dewey a Célestin Freinet e a Paulo Freire, passando per Antonio Gramsci. Questa linea oggi è presente nel femminismo, quello di bell hooks per esempio (Insegnare a trasgredire. L’educazione come pratica della libertà, Meltemi). A tale proposito, Lea Melandri ha spiegato l’importanza della rivista L’erba voglio, e delle 150 ore in Italia, che amplificarono tale ricerca (Il desiderio dissidente, DeriveApprodi).
LA PROSPETTIVA dell’«uguaglianza concreta» resta attuale. Il neoliberalismo conduce una guerriglia preventiva contro la sua rinascita. L’idea di «educazione democratica», invece, la sollecita. E invita a creare un’alleanza con le nuove sensibilità ecologiste diffuse, anche tra gli studenti che hanno partecipato alle manifestazioni di Fridays for Future. Laval e Vergne prospettano una ricomposizione epistemica dei saperi e una conseguente rivoluzione degli studi finalizzata alla creazione di una democrazia ecologica, femminista e decoloniale. Da questa alleanza può nascere una «cultura comune» contraria all’individualismo, all’antropocentrismo e al patriarcato e favorevole a un «razionalismo» relazionale tra umani e viventi. Questa «utopia concreta» della scuola è consapevole della sofferenza dei vinti e trasmette l’idea del riscatto ai nuovi arrivati nel mondo.
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