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Per una rottura europea della governance della crisi: il caso Italia

Per una rottura europea della governance della crisi: il caso Italia

Movimenti L'analisi dei movimenti emiliani: "Non bisogna temere di svendersi alla rappresentanza: la sua crisi è irreversibile e bisogna giocarla fino in fondo, invadendo lo spazio politico che ora c'è"

Pubblicato quasi 10 anni faEdizione del 29 gennaio 2015

Linee di comando

26 gennaio 2015. Anno VII° della Crisi. Chiamiamola pure Grande Recessione o Lunga stagnazione, non importa. Epicentro delle turbolenze è l’Europa, quel vecchio progetto di un luogo di pace e prosperità sembra ormai un vago ricordo, forse uno slogan elettorale, al massimo una bella dichiarazione su qualche documento ufficiale. La verità è un’altra. L’avvento della crisi, come narrazione e come fatto, ha innescato una serie di profonde trasformazioni politiche, economiche e sociali nel Vecchio Continente. Due sono gli elementi che risaltano, unificazione del comando e gestione differenziale del potere. La Troika, questa strana commistione fra Commissione europea, Banca centrale europea e Fondo monetario internazionale, sintesi autoritaria di potere politico e potere economico, ha di fatto esautorato i diversi Stati della propria autonomia decisionale. Non si tratta di un caso, né di un’usurpazione. Lo spostamento di prerogative di sovranità su un livello sovra-nazionale risponde a una precisa esigenza del capitale di contenere gli effetti della Crisi e gestire nuovi processi di accumulazione ed espropriazione. Bisognava ridurre il rischio, l’incertezza, l’instabilità e lo si è fatto istituendo una cabina di regia priva di qualsiasi fondamento democratico. Agli Stati non è rimasto che trasformarsi in esecutori materiali di linee guida esplicitamente neo-liberali, le stesse che sono state causa della crisi. Salvare le banche, stimolare l’economia perché poi questo porterà al benessere generale. È la vecchia teoria del trickle-down, lo sgocciolamento dall’alto verso il basso, quello per cui la ricchezza di alcuni si riverserà un giorno sulla società intera e quindi a beneficio di tutti. Balla colossale che si e’ risolta materialmente in processi di gigantesca disuguaglianza sociale: capitalismo senza democrazia.

Interferenze

L’architettura della governance neo-liberale della crisi d’altra parte non ha cancellato le vecchie forme del politico, piuttosto le ha piegate a suo vantaggio. E così, oltre all’imposizione di misure di pareggio di bilancio, privatizzazione del pubblico e de-regolamentazione del mercato del lavoro, ha tessuto le trame di una narrazione esclusiva, quella per cui c’è una sola via d’uscita dalla crisi: il rispetto ossequioso dei diktat della Troika e del capitale finanziario. La rendita si è fatta impresa politica con il suo story telling della crisi, i suoi gruppi parlamentari, la sua macchina del consenso. Non è un caso quindi se in quasi tutti i paesi dell’Ue si sono formati governi estremisti di centro, composti da larghe intese fra partiti di tradizione popolare e socialista, fedeli agli impegni presi nei confronti delle richieste di risanamento del debito o pro-austerity. Il consenso rimane un fattore determinante, pur all’interno di una generale crisi della rappresentanza.

Una volta delineato questo contesto, diventa interessante gettare lo sguardo su alcuni fuochi di eterodossia. Da un po’ di tempo a questa parte stanno emergendo in Europa delle forze politiche, molto diverse tra loro, che hanno in comune l’idea che ci possa essere una via alternativa d’uscita dalla crisi.Prima di tutto, mettendo in questione le misure di austerity e rimettendo a tema la democrazia, la sovranità ed il problema del potere. Alcune di queste forze sono coalizioni di movimento larghe e multi-livello come Blockupy. Altre invece sono formazioni politiche innovative; Syriza e Podemos sono i due fenomeni che più hanno fatto parlare di sé, ma anche in Irlanda e in Slovenia si stanno affermando forze europeiste di sinistra. Si tratta in questi casi di “partiti” (non sempre il termine è appropriato) o coalizioni politiche che vanno bel oltre la forma partito, che non hanno la missione di rappresentare ma di governare.

Saranno in grado di mantenere le promesse fatte? Riusciranno ad opporsi alla Troika? Non lo sappiamo; e comunque non dipende solo da loro l’esito della sfida, anche perché questa non è una partita che ogni Stato gioca da solo, ma una scommessa generale sul futuro dell’Europa. Non a caso le coalizioni sopra nominate stanno intrecciando i rispettivi percorsi, proprio perché la costruzione di un’alternativa si gioca su più larga scala del semplice piano nazionale. Non si tratta dunque di stabilire a tavolino quanto siano rivoluzionari Syriza o Podemos; né di scervellarsi nel capire se i loro programmi elettorali siano anti-capitalisti o piuttosto keynesiani. Quello che va evidenziato è che, rispetto all’esigenza da parte del capitale di una lineare ed efficace trasmissione del comando, l’affermazione di queste forze politiche rappresenta un fattore di interferenza con cui riaprire un tavolo negoziale. Non si tratta dunque di decidere se la vittoria di Tsipras sancirà il trionfo della classe operaia o sindacare sulla composizione del nuovo governo, bisogna invece aprire gli occhi sul fatto che il cambio di governo in Grecia apre nuovi scenari per la costruzione di una lotta di classe diffusa sul piano europeo. L’affermazione di Syriza costituisce un primo forte segnale del fatto che cambiare si può. Soprattutto pone nuovamente al centro la contrattazione del debito, asse portante delle politiche di austerity, e la messa a tema della democrazia materiale: il noi, ampio e complesso, contro il loro, la democrazia di molti contro il colpo di stato della Troika in Europa.

Davanti a noi si apre una finestra politica interessante: tra gennaio (elezioni in Grecia) e novembre (elezioni in Spagna) abbiamo l’occasione di tornare a parlare di alternativa nella crisi e la possibilità di innescare meccanismi di rifiuto della gestione neo-liberale della stessa. Quale buon rivoluzionario non ne approfitterebbe?

L’anomalia italiana

L’Italia costituisce, rispetto agli altri Piigs, un’anomalia. Diciamocelo con onesta, senza raccontarci di fantomatiche rivolte o imminenti assalti alla Bastiglia, nel nostro paese stiamo scontando l’assenza di movimenti sociali e di percorsi politici strategici.

Il quadro generale è dominato dall’estremismo di centro del Partito della nazione e dall’affermarsi di una destra xenofoba e nazionalista. A sinistra il vuoto. Sono stati spazzati via i partiti d’opposizione, erosi dalla crisi della rappresentanza, svuotati da anni di anti-berlusconismo legalitario, ancorati a vecchie forme e parole d’ordine.

Anche il quadro sociale non è più rassicurante. Il “tanto peggio, tanto meglio” non funziona: l’impoverimento diffuso non ha portato allo sviluppo di grandi movimenti di protesta, piuttosto ha alimentato un senso generale di rassegnazione e individualismo. Al massimo ha rinforzato passioni tristi come il risentimento e l’invidia. La rabbia sociale ha assunto la forma di una guerra fra poveri piuttosto che di rifiuto sistemico, diventando così terreno fertile per partiti come la Lega di Matteo Salvini, tra i pochi che ha costruito una (tragica) proiezione seria e neo-nazionalista della società in crisi.

La crisi della rappresentanza, ben esemplificata da fenomeni come il Movimento 5Stelle, non si è limitata ai partiti, ma ha investito anche le strutture di movimento. Pure queste ultime scontano la perdita di una presa sul reale, troppo spesso prigioniere di uno sterile attendismo di tempi migliori o di una fideistica attesa dell’avvento di una sollevazione generale.

Anche quei settori di classe (facchini della logistica, occupanti di case) che hanno espresso cicli di lotta con un alto livello di conflittualità stanno attraversando una fase di riassestamento. Per il resto, i tentativi meritori ed a cui collaboriamo di creare più larghe coalizioni sociali fra le diverse forme del lavoro contemporaneo sono rimasti al momento su un livello evocativo.

Il kairos dei nostri giorni

Qual è dunque la scommessa del nostro presente se non quella di trasformare l’anomalia negativa in un’anomalia positiva? La temporalità rivoluzionaria non ha la forma della retta, spesso richiede rotture e salti e non prevede la prudenza. La vittoria di Tsipras in Grecia costituisce un punto di attrito alla fluidità delle politiche di austerity e apre davanti a noi un campo di possibilità. Come vogliamo attraversare questo spazio? Aspettando che la matassa si sciolga da sola per non rischiare di sbagliare? Ostinandoci in una lenta e mai conclusa accumulazione delle lotte territoriali? Generalizzando processi di lotta senza vertenzialità specifiche?

La crisi della rappresentanza non si risolve nella bastonata al cane che affoga ma nella messa a tema del problema del potere.

La ciclicità del conflitto non ha sedimentazioni lineari; né la coalizione di pezzi di società è stata finora in grado di sancire nuovi rapporti di forza. Tutti percorsi degni, ma ancora distanti dall’obiettivo dichiarato.

Proviamo allora a delineare i contorni di una proposta di lavoro politico per i prossimi mesi: perché non provare a cambiare prospettiva? Perché non provare ad innescare dei processi politici che facciano da combustibile per lo sviluppo di nuove lotte sociali?

Dobbiamo mettere in discussione prima di tutto noi stessi e ripensare le forme e i concetti con cui abbiamo fatto politica finora. Conflitto e consenso, sociale e politico, orizzontale e verticale non sono coppie binarie ma processi ibridi. Come possono darsi lotte sociali senza porsi il problema della conquista di potere politico? Come può un progetto politico alimentarsi senza la sostanza delle lotte sociali? La costruzione di spazi di libertà e contro-potere può mai esimersi dall’affrontare il problema dell’organizzazione? Chi ha detto che la costruzione del consenso non passi anche attraverso processi di conflittualità diffusa e radicale e che, viceversa, la gestione del consenso escluda momenti di conflitto?

Proviamo a interrogarci fino in fondo a partire da queste domande, gettiamo lo sguardo al di là dei nostri confini nazionali e abbracciamo un pensiero transnazionale.

Come farlo? Aprendo un momento costituente, uno spazio pubblico di discussione fra tutti quei partiti, movimenti, associazioni, comitati, collettivi, persone che vogliono provare a rompere la linearità del presente. Non si tratta di compiere fusioni a freddo: non ci sono materiali da fondere ma identità da decostruire e un totalmente nuovo da immaginare. Non si tratta di fondare partiti: al contrario, si tratta di superare ciò che ne rimane contrastando operazioni di maquillage ed il vizio maledetto delle “foto di famiglia”. Non ci sono parti sociali da rappresentare ma lotte, progetti, bisogni e speranze da far parlare. Non bisogna temere di svendersi alla rappresentanza: la sua crisi è irreversibile e bisogna giocarla fino in fondo, invadendo lo spazio politico che ora c’è.

In altre parole, possiamo provare a sottrarre punti di comando al capitale e potenziare le lotte di classe, trasformando l’instabilità sistemica da rischio per la messa a valore in innesco di un’alternativa alla crisi; e questo tentativo passa anche attraverso la costruzione di uno spazio politico ibrido che abbia la missione della sovversione della rendita e la riconquista della democrazia materiale.

Proviamo a spiegare le vele alla ricerca di nuovi territori politici. Solo così potremo dire di non aver avuto alcun rimpianto: avanti!

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