Per una occupazione «sociale» delle fabbriche
L'articolo C’è un ripensamento radicale del nostro futuro su cui tutti devono cimentarsi nel concreto delle situazioni, ognuna diversa dall’altra. Una fabbrica occupata, un Municipio occupato, molte aziende presidiate potrebbero diventare la sede di questi ripensamenti, meglio di tanti inefficienti uffici studi
L'articolo C’è un ripensamento radicale del nostro futuro su cui tutti devono cimentarsi nel concreto delle situazioni, ognuna diversa dall’altra. Una fabbrica occupata, un Municipio occupato, molte aziende presidiate potrebbero diventare la sede di questi ripensamenti, meglio di tanti inefficienti uffici studi
Occupazione delle fabbriche, come ha prospettato il segretario della Fiom? La manifestazione del 25 ottobre potrebbe rilanciarla. Sarebbe una risposta forte a una politica senza soluzioni credibili per l’occupazione, soprattutto quella delle aziende in crisi. Ma gli impianti occupati potrebbero diventare anche un punto di riferimento per le tante forze disperse nei territori che si oppongono alla devastazione di occupazione, redditi, ambiente, scuola, beni comuni, servizi pubblici, convivenza civile; di tutte le cose sottoposte all’attacco dei vincoli europei e del Governi Renzi.
D’altronde, la crisi di molte imprese medio-grandi è il frutto di quegli investimenti esteri che per il Governo dovrebbero far «ripartire» l’Italia e che sono invece la fossa dell’apparato produttivo e dell’occupazione del paese: ora la AST di Terni, ma prima di lei Alcoa, Sevestal, Jabil, Nokia, Alstom, Maflow, e tante altre; tra breve l’Ilva (la compreranno solo per metter piede in Europa, acquisirne il mercato e abbandonarla al destino già segnato dai Riva spremendo uomini, impianti e città fino al totale esaurimento). E la Fiat (ora FCA) non è da meno.
Ma poi?
Senza un cambiamento radicale del quadro politico ed economico italiano ed europeo, le lotte, sia condotte in forma “blanda” che in forme “dure” come l’occupazione, non hanno sbocchi. Nessuno convincerà mai una multinazionale che intende smantellare un impianto a rinunciare ai propri progetti: al massimo ne procrastinerà la scadenza in cambio di un finanziamento pubblico e/o della rinuncia a diritti e quote di salario delle maestranze, per poi portarne a termine con più calma la delocalizzazione. Nemmeno ci si può aspettare qualcosa dal subentro di un nuovo padrone Se non conveniva a uno non conviene neanche all’altro, se non per lucrare qualche altro beneficio: come nella farsa della riconversione della Fiat di Termini Imerese…
Ma neanche i lavoratori, operai e tecnici, possono prendere in mano da soli le sorti di un’azienda in via di dismissione: non ne hanno la forza e lo sanno. A meno che al loro fianco si schieri un’intera comunità: le maestranze di aziende vicine o connesse, sindaci e Regioni, l’associazionismo civico e ambientale del territorio, Università e centri di ricerca, ecc. Tutti insieme a costituire l’embrione di una nuova governance, democratica e partecipata, non più solo aziendale, ma territoriale. Occorre cioè cercare nel tessuto sociale le forze e le risorse che i protagonisti della globalizzazione ritirano dai territori; e in nuovi accordi con fornitori e utilizzatori, non più affidati solo al mercato, gli sbocchi alternativi di un progetto della conversione ecologica di processi e prodotti. Progetti del genere, o anche solo rivendicazioni condivise che vadano in questa direzione, non si improvvisano.
Ma per chi vede nella conversione ecologica una via obbligata per salvare presente e futuro – e Landini si è espresso più volte in tal senso – è ora di passare dalle parole ai fatti. Non si può delegare al Governo un compito che può nascere solo da una solida convinzione, da un impegno diretto e dalla pratica dell’obiettivo. Per mettersi all’opera occorre convocare una versione aggiornata di quelle che una volta si chiamavano conferenze di produzione: con i potenziali interlocutori, singoli, associati e istituzionali, e cominciare a vagliare e a concretizzare le ipotesi in campo.
Utopia?
No. Guardiamoci intorno! La crisi ci sta travolgendo.
Quanto può durare l’attuale assetto dell’Europa, rimandando giorno per giorno la resa dei conti con lo sfascio ambientale, sociale ed economico che sta producendo? Abbiamo la guerra è in casa: in Medio Oriente, in Libia, in Ucraina; e abbiamo milioni di profughi che premono ai suoi confini. Dell’una e degli altri non ci libereremo facilmente. Perché più che di guerre si tratta di uno stato permanente di belligeranza armata e sanguinaria, prodotto di politiche che l’Europa ha perseguito per decenni, senza mai assumersi la responsabilità di cercare una soluzione. E perché respingere quei profughi dalla «fortezza Europa» sarà sempre più difficile, costoso, inefficace e criminale: un crimine contro l’umanità, un’altra guerra. (mentre se accolta e sostenuta, quell’umanità dolente, sempre più simile a molti nostri concittadini ormai «profughi in patria», potrebbe rivelarsi una solida base per costruire la pace nei loro paesi; rapporti consolidati con chi è rimasto ad aspettarli; e un’alternativa di goveno pacifica e democratica anche tra noi.
Poi i nostri governi hanno promosso una resa senza condizioni alla finanza mondiale, consegnandole un potere sulla vita di Stati, Governi, imprese, comunità e territori che non prevede vie di uscita consensuali. A meno di una rottura radicale delle «regole» del gioco chi ha in mano i cordoni della borsa può strangolare le basi stesse della nostra sussistenza. Guardate la Grecia, che è il nostro futuro, se non già il nostro presente in molte aree del paese, a partire dal Mezzogiorno. È un paese distrutto dalla guerra: quella guerra senza armi con cui la finanza conduce la lotta di classe.
Altro che ripresa! Basta che si prospetti un cambio radicale degli assetti politici e subito la finanza torna a mordere, mettendo in forse i finti equilibri di uno scenario di crescita che non ha più alcun fondamento. Per quanti anni l’euro, così com’è, potrà ancora durare? Sia che si scelga il suo dissolvimento per l’improbabile uscita di uno Stato dopo l’altro (il ritorno alle valute nazionali), nell’illusione di ritrovare una sovranità ormai perduta, sia che si arrivi allo stesso esito per l’incapacità dell’establishment politico-finanziario di tenere in piedi quei finti equilibri, senza una svolta politica radicale, quello che ci aspetta non è un nuovo ordine continentale, ma un caos diffuso e drammatico: che farà venir meno per sempre la possibilità di far credere che con un aggiustamento di bilancio qui, una stretta ai diritti di lavoratori e cittadini là, un taglio agli istituti sociali costruiti in un secolo e mezzo di lotte del movimento operaio tutto possa tornare «in ordine».
O addirittura rimettersi in marcia. No. Oggi guardare al futuro vuol dire progettare conflitto e partecipazione per promuovere un assetto sociale completamente diverso: che certo riguarda l’intero paese, l’Europa e il resto del mondo; ma che può trovare le forze per essere concepito, e poi rivendicato, promosso e imposto, solo nell’iniziativa nei territori: strada per strada, azienda per azienda, Comune per Comune; insieme a tutti beni comuni che ogni comunità può. C’è tanto da riconvertire, a partire dall’assetto del territorio, che non possiamo più lasciare in mano a coloro che ci governano, perché lo trattano come un mulo da carico, ricoprendolo di cemento, asfalto, Grandi Opere e Grandi Eventi che lo sfibrano; per farci ritrovare a bagno e ricoperti di fango.
C’è un ripensamento radicale del nostro futuro su cui tutti gli uomini e le donne di buona volontà devono cominciare a cimentarsi nella concretezza delle situazioni, ognuna diversa dall’altra. Una fabbrica occupata, un Municipio occupato, molte aziende occupate potrebbero diventare la sede di questi ripensamenti, molto più efficaci di tanti inefficienti uffici studi.
I consigli di mema
Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento