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Per un ritratto di Leo Messi

Per un ritratto di Leo Messi

Campioni Considerazioni a partire dal libro di Fabrizio Gabrielli «Messi», edito da 66thand2nd

Pubblicato quasi 2 anni faEdizione del 22 ottobre 2022

È per automatismo percettivo, oramai, che i nomi di Lionel Messi e Cristiano Ronaldo vengono associati come fossero appunto, e sia pure di profilo opposto e complementare, i Dioscuri del calcio postmoderno ovvero sublimato in essenza digitale, segno del suo stesso segno, tautologia di quello che fu un gioco e oggi non è più neanche uno sport ma semmai uno spettacolo a dominante mediatica, indefinibile e ubiquitario. Uno stereotipo, dopo tutto ben fondato, dirime la fisionomia dell’uno (il portoghese, risultato di una vera e propria ascesi, trionfo della volontà auto-costruttiva, emblema della metafisica del successo) dall’altro, l’argentino, che viceversa è iscritto nel senso comune quale emblema del genio calcistico tout court e, al momento, di unico possibile erede di Diego Armando Maradona nell’immaginario degli appassionati. Non si è sottratto all’associazione, ricavandone un dittico, Fabrizio Gabrielli prima firmando Cristiano Ronaldo. Storia intima di un mito globale (2019) e adesso il corrispettivo Messi (66thand2nd), «Vite inattese», pp. 294, euro 18,00), dove l’autore si conferma l’ottimo saggista che i lettori della rivista online L’ultimo uomo da tempo conoscono.

Non si tratta infatti di una biografia né, tanto meno, della ovvia cronografia delle gesta di un campione ma, al contrario e alla lettera, della interpretazione di un mito. Se infatti il profilo di Cristiano è aggettante, euforico, invasivo e può accecare per sovraesposizione, quello di Lionel al contrario si nasconde in una serie di ambiguità, di più o meno vistose contraddizioni e infine di enigmi. Cristiano è l’isolano periferico, figlio dell’alcolizzato che arriva all’apice e di lì alimenta la propria leggenda che sente imperitura, intangibile perché il suo stesso delirio di onnipotenza consiste nell’avere abolito (e c’è da credere una volta per tutte) la dimensione del tempo. Viceversa, chi è Messi? Il suo tabellino è uno speculum veritatis non meno imponente (nei circa vent’anni di Barcellona ammonta a qualcosa come 778 presenze, 672 gol, 266 assist e una quantità di trofei vinti) ma paradossalmente può occultare la domanda essenziale: chi è davvero, nel profondo, Lionel Messi? Se per Cristiano la risposta parrebbe univoca e persino obbligata, per il ragazzo di Rosario non lo è affatto.

Muovendo da una quantità di testimonianze e dichiarazioni del campione (un uomo schivo, laconico ma che non ha mai lesinato la sua presenza mediatica né ha mai pubblicamente edulcorate le proprie vedute), Gabrielli censisce ed elabora una sequenza di nessi che, in taluni casi, si rivelano antinomie. In primo luogo il decorso, dolorosissimo, della crescita fisica a lungo ritardata da un difetto ormonale e però ricompensata, se così si può dire, da talenti non meno corporei (baricentro molto basso, leve brevi e agilissime) e soprattutto dagli estri improvvisi, deflagranti, di una tecnica che equivale alla unicità del suo stile cognitivo. In secondo luogo, c’è il rapporto con la madre patria di colui che viene annoverato come il meno argentino fra gli argentini. Per parte sua Gabrielli non rileva in lui i segni della argentinità tradizionale ma piuttosto il legame con la Matria nativa, Rosario, che il campione ha infatti tentato di ricostruire sulla Rambla. È tango, in altre parole, il calcio di Messi? Anche in questo caso la risposta è ancipite, in quanto non lo è come poteva esserlo la frenetica danza di Sivori, il ditirambo di Maradona o la milonga cadenzata del pure grandissimo Di Stéfano, ma lo è senz’altro se viene inteso come Tango Nuevo: Messi ne è il demiurgo, capace di dettare la nuova grammatic a dei passi e delle figure fino a gesti di inaudita bellezza, proprio perché anticlassica, come il gol di testa in controtempo al Manchester United nella finale di Champions a Roma (maggio del 2009).

Cruciale è d’altronde la domanda ulteriore, cioè se Messi sia un individualista (per motivi soverchianti Cristiano lo è, pensandosi autosufficiente alla stregua del Primo Mobile aristotelico) oppure rimanga un orchestrale di genio. Anche se d’acchito può sembrare un perro che insegue una palla, struggente immagine della sconfinata periferia argentina, agli occhi del saggista egli è la perfetta incarnazione dell’Homo ludens di cui disse il filosofo Johan Huizinga, colui che non si appaga narcisisticamente ma entra in dialogo e si adatta al gioco degli altri, che si chiamino anche Xavi, Iniesta, Busquets, i corifei del magnifico Barcellona di Pep Guardiola fra il 2008 e il 2012: «Pep aveva bisogno di stringere con Messi questo tipo di legame: presentarsi ai suoi occhi come il portatore sano delle dritte giuste per razionalizzare il suo status di atleta, per impreziosire la sua visione del calcio anche fuori dal campo Assecondare le tendenze solipsistiche di Leo in un reticolo di trame interconnesse senza dargli la sensazione di sentirsene imbrigliato, era una sfida dagli esiti non scontati».

Connettendo passione e filologia, Gabrielli sonda la sua figura che gli si rivela ora un chiaro ideogramma ora invece un opaco geroglifico, interrogandolo in uno stile vivace (anche se meno sorvegliato rispetto a quello della precedente monografia su Ronaldo) e comunque suffragato da una bibliografia ricca e ben articolata (anche se, salvo errore, non vi si menziona il fondamentale contributo di Sandro Modeo, Il Barça. Tutti i segreti della squadra più forte del mondo, Isbn 2011). L’ultima contraddizione rilevata, tuttavia, non scioglie l’enigma ma lo reitera. Corrisponde alla frazione più recente della vita di Leo perché da un lato comporta l’addio alla squadra di sempre, la sua sola couche, dall’altro il recupero trionfale di un rapporto con la Nazionale argentina che più volte aveva dichiarato di voler abbandonare. E infatti nel ’21 Leo sbarca a Parigi per intrupparsi fra i troppi globetrotter del Paris Saint-Germain, un club di risorse economiche illimitate al cui vertice siede un petroliere dalla fisionomia inquietante che del calcio ha una concezione essenzialmente predatoria. La scelta di lasciare il Barcellona ha tutte le caratteristiche di un suicidio simulato. Leo gioca male, non segna, si infortuna, spesso e volentieri è fischiato e Gabrielli scrive a un certo punto che il campione somiglia a un personaggio di Cortazar, a un freak metereotico caduto su Parigi. Ma è il Leo che pochi mesi dopo, il 10 luglio del ’21, guida l’Argentina alla vittoria in Copa América prevalendo sugli eterni rivali del Brasile nello loro stesso tempio del Maracanà, a Rio.

Sia nelle gare di qualificazione sia specialmente in finale il magistero di Messi si illustra di una incognita saggezza e risplende tatticamente nella classicità che in Sudamerica dicono sia tipica degli hombre orquesta secolari, da Pepe Schiaffino a Alfredo Di Stéfano, Johan Cruijff e Diego ovviamente. Le immagini di quella sera ci restituiscono un Messi redivivo, farfalla volitante che si lascia per sempre alle spalle la crisalide di tante sconfitte in maglia albiceleste. Può sembrare incredibile, ma Leo esulta, grida il suo giubilo, guida il coro dei compagni tanto che l’Argentina «può tornare a vantare un capitano che è anche un caudillo, un capopopolo, un eroe tragico» (cioè quello che il suo fatale deuteragonista, Cristiano Ronaldo, non potrà mai essere). Per chi segue il calcio, scrive Franco Gabrielli, è la riprova del fatto che Messi è sul serio «il più grande mistero conosciuto».

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