Alias Domenica

Per Severino Cesari

Per Severino Cesari

Ricordi Questi racconti tratti da «Storie per quattro giornate», uscito da Sellerio nel 1989, articoli e poesie di Severino Cesari, morto lo scorso 25 ottobre, hanno lo scopo di far conoscere la sua stagione più giovane a chi non c’era e renderlo più vicino a noi, che abbiamo lavorato tanti anni con lui

Pubblicato quasi 7 anni faEdizione del 26 novembre 2017

IL BIBLIOTECARIO

In uno dei mondi possibili L’Odissea non esiste. All’origine di tutti i racconti dove si parla di un eroe che ritorna c’è invece un altro libro, completamente diverso. Vi si narrano infatti le molte avventure di questo eroe, come la lotta contro un gigante da un occhio solo, figlio della terra, o contro i figli mostruosi del mare. Spesso una donna lo trattiene e lui allora dimentica che suo unico scopo è tornare alla sua isola rocciosa, dove lo attende un’altra donna, un destino di saggio amministratore del patrimonio, e una morte serena sulla riva del mare.

In uno dei mondi possibili L’Odissea non esiste. C’è invece un altro libro, completamente diverso, dove si narra la storia di un eroe che ritorna. Nel canto sesto del libro l’eroe, portato da naufragio sulla spiaggia di un paese straniero, viene risvegliato da un gioco di fanciulle. Tra esse ce n’è una, figlia del re, alla quale l’eroe si rivela. Ma è nudo e sporco di salsedine; per non farla fuggire, aggiunge alla supplica parole gentili. Accortamente usa immagini e costruzioni tali, che un uomo può usare solo se ha molto viaggiato, molto conosciuto. Così il contatto è stabilito. La paragona a una giovane palma, vista un giorno in un lontano paese.
In uno dei mondi possibili L’Odissea non esiste. Neppure esistono racconti dove un eroe che molto ha sofferto, più astuto che forte, spesso in lotta con gli dèi o giocattolo apparente nelle loro mani, dopo molte avventure torna a una casa dove lo attendono altre battaglie. Nella mia qualità di Bibliotecario ritengo ormai indilazionabile un intervento. Nonostante la miopia sempre più grave saprò ben riconoscere il luogo, dove una fanciulla preoccupata ha nascosto l’unica copia del libro. Per introdurmi nel palazzo basterà sfogliare all’indietro qualche pagina. Sporco di salsedine, eccomi vergognoso dietro un cespuglio, per non farmi scorgere da quelle fanciulle. Una ce n’è tra loro, simile a una giovane palma slanciata, che vidi una volta in un lontano paese.

CONGEDO

Il giovane andò dal maestro. Il maestro danzava, acceso in volto, e ogni passo di quella danza significava alte cose, alte cose operava. La danza non si interruppe. Disse allora il giovane: – Ho trovato la prima stanza e vi sono rimasto a lungo. Mi sono esercitato nelle arti molteplici del combattimento, come tu mi hai chiesto. Ora sono pronto. So distruggere in cento modi diversi, senza essere toccato dal desiderio. Il mio cuore è vuoto, la mia felicità è perfetta. È questo il paradiso?
Il maestro continuò a danzare, acceso in volto. Il giovane sapeva che ogni passo di quella danza significava alte cose, alte cose operava. La danza non si interruppe. Il giovane se ne andò.
Il giovane tornò dal maestro, e lo trovò che danzava. Anche se non c’era nessuno a vederlo, ogni passo di quella danza significava alte cose, alte cose operava. – Ho trovato la seconda stanza, e mi sono fermato a lungo. In quella stanza c’era un libro, che descriveva la stanza in ogni dettaglio. Ho letto il libro fino a dimenticarmene. Divenni una cosa sola con quelle pagine inesauribili. Compresi un giorno che anche la stanza era contenuta nel libro, e io allora lo scrissi. Ecco, te lo porto in dono. Ora la mia felicità è perfetta. È questo il paradiso?
Il maestro continuò a danzare, acceso in volto. La sua danza significava alte cose, a ogni passo, operava miracoli. Il maestro non interruppe la danza. Il giovane se ne andò.

Il giovane tornò dal maestro, e lo trovò che danzava, col viso acceso e trasfigurato. Il giovane parlò con asprezza. – Nella terza stanza, che tu non mi hai chiesto di cercare, c’è un uomo come te. Egli mi ha insegnato a danzare, ma in cambio ha voluto il mio corpo. Ora so danzare in cento modi diversi, né mi è segreto il seguito della tua danza. In ogni mio passo c’è un potere. Sono simile a te, e la mia felicità è perfetta. Dimmi, vecchio, c’è un altro paradiso oltre questo?
Il maestro continuò a danzare, col viso acceso e trasfigurato. Ogni suo passo significava alte cose, alte cose operava. La danza non si interruppe. Il giovane se ne andò.
Il giovane cercò a lungo la quarta stanza, senza trovarla. Dimenticò, nella ricerca, le stanze che aveva conosciuto, le arti che aveva apprese. Quando tornò era trascorso molto tempo, e lui non era più giovane. Il maestro non c’era più. Provò una infinita nostalgia, e gettandosi a terra pianse tutte le sue lacrime. Poi si rialzò, acceso in volto, e cominciò a danzare.

IL SIGNOR O  (UNA IDEA DI TAYLORISMO)

Nella grande casa editrice uno dei principali dirigenti è il dottor Intempo. Egli coordina le complesse attività dell’azienda, che si estendono in terreni impensabili. Fonte inesauribile di divertimento nei corridoi della Casa, in modo direttamente proporzionale all’altissima posizione del dottor Intempo, sono i giochi di parole del tutto ovvi ai quali ognuno si ritiene autorizzato sul nome di uno dei suoi stretti collaboratori, il dottor Tempo. Ciò accade ogni volta che per ignoranza o corta memoria dell’interlocutore, o semplice errore del centralinista, una telefonata importante per il dottor Intempo viene passata al dottor Tempo, che non sa come regolarsi; o viceversa una telefonata un poco meno importante viene passata al dottor Intempo, che tratta l’importuno con fredda cordialità ed è capace anche di intessere con lui una conversazione fitta di dettagli insignificanti, sfuggente e impossibile da sciogliersi finché il malcapitato – un autore promettente ma poco noto, un traduttore di buon livello che vive però di contratti saltuari, ilproduttore di una emittente locale – non viene smistato, con uno stacco dell’apparecchio lieve come un sospiro, all’imbarazzato dottor Tempo, che vede così quotidianamente diminuire la propria credibilità. Trai veri misteri dell’azienda è invece la presenza di un anziano impiegato, il signor Empo, al quale nessuna funzione apparente è riconosciuta, ma nemmeno ci si azzarda a scherzare su di lui; il centralino non sbaglia mai nel passargli le telefonate, che del resto sono molto rare. Molto richiesto è all’opposto lo svelto signor Po, del magazzino centrale. Non si direbbe che l’enorme mole di lavoro di cui si fa vanto, e che per una inspiegabile miopia collettiva gli viene riconosciuta da tutti, sia svolta in realtà per intero dal suo unico dipendente, l’oscuro fattorino asiatico da poco assunto, il distratto e lunatico signor O.

 

UNA IDEA DI RECENSIONE

Sulla talpalibri del 5 gennaio 1990 il critico e storico delle letterature comparate Remo Ceserani propose di riflettere sul genere «letterario» più praticato in un quotidiano: la recensione, segnalandone pericoli di impressionismo, di favoritismi, di miopia ideologica. Questa è la risposta di Severino Cesari, tagliata della parte finale in cui si rivolge a Ceserani. La data è 2 febbraio 1990

In una pagina di un celebre libriccino che raccoglie un suo ciclo di conferenze su alcuni Aspetti del romanzo, l’autore di Passaggio in India e Casa Howard si innamora della «piccola frase» di Vinteuil e la usa per parlare del «ritmo» nell’immenso romanzo di Proust. «Una piccola frase dell’andante si impadronisce dell’orecchio di Swann e si incunea nella sua vita. È sempre un qualcosa di vivo, ma le forme che assume sono differenti. Lungo un certo periodo accompagna l’amore di Swann per Odette. L’avventura amorosa ha un epilogo disgraziato, la piccola frase è dimenticata, la dimentichiamo anche noi. Riappare quand’egli è torturato dalla gelosia, e ne accompagna tutt’insieme la infelicità presente e la passata felicità…» La «piccola frase», scrive E. M. Forster, è libera di espandersi, riapparirà dopo centinaia di pagine per farci ripiombare nella nostalgia, o nel tremendo, del paese ignoto; che avevamo, con lei, già conosciuto.
Ho riportato a lungo lo scritto di Forster perché mi sembra inconcepibile una discussione sul «senso della recensione», rivolta a creare una specie di normativa per chi, su questo giornale, scrive di letteratura (o di altro). Credo anzi che le recensioni non abbiano proprio senso, perché non esistono. Esiste una buona critica (per esempio, quella di Forster su Proust) e una cattiva critica. La buona critica è quella che aiuta l’opera (il romanzo, la poesia, il racconto, il dramma, il film, il quadro, il saggio) ad «aprirsi» nella mente di chi legge, aiuta un mondo, che è intessuto di parole (ma potrebbe anche essere fatto di immagini, o di suoni), a svelarsi, nella sua struttura connettiva e nel suo nudo cristallo. E questa è un’arte per cui non credo esista ricetta. Ciò che davvero serve, sono rigore e passione: e un certo senso di tremore, una salutare insicurezza.
All’inizio di tutto c’è qualcosa che ci manda un segnale: come la inquieta domanda che arriva al protagonista dalla giungla di Kurtz, in Cuore di tenebra; come il richiamo della foresta in London; come la richiesta d’aiuto che arriva all’equipaggio dell’astronave Nostromo in Alien di Ridley Scott. Da lì parte l’avventura: da qualcosa che batte in testa, e preme, e richiede – per essere svelato – tutta la sapienza, tutti i saperi, tutta la tensione di cui siamo capaci. Ma questo non è il processo normale che avviene nella mente di qualunque lettore? In che cosa il buon critico può giustificare la propria pretesa di distinguersi da un «comune lettore» (o «spettatore»)?
In nulla, appunto. È una verità certo difficile da digerire per i «critici di professione». Ma per chi insegna letteratura (o storia del cinema, o del teatro) nelle università, per chi ne scrive (dietro modesto compenso) su giornali e riviste, anche in quella forma del tutto degradata e normalmente selvaggia della critica che è la «recensione» (parola in sé spaventosa), l’unico modo per salvarsi è ricordare proprio questa elementare verità: che non c’è alcuna differenza di rango tra autorizzati (i critici) e non (i normali lettori o spettatori) nell’umana attività di elaborare e scoprire nuovi mondi a partire dai segnali che qualche Misteriosa Astronave – l’opera – ci ha inviato (….).

POESIE/INEDITI

Nell’attardato rumore (minime lame)
incatenato a costanza (è terribile)
al senso di una perdita:
cadde limpida, cadde pura, continua a cadere
e a cedere piano al tocco delle dita
vorre lacrime non le vorrei vorrei lasciarmi
e permanere, vorrei consistere
di roccia e sabbia al tocco piano
cadde pianissimo cade
continua a cedere

POESIE/ INEDITI

L’imprevisto falco e segreto dirsi salirà
dove compatto si tiene ognitutto: frangifiore
e sottili bifore arcate vertigini.
Non è certo che sole ti illumini, luce ti scalderà
voce già fatta fricore di neve dolce sorella
riconduce alla terra la linea spezzata del volo

26 Fortini

  • Il 12 marzo del 1987 Franco Fortini scriveva il testo che qui riproponiamo su una raccolta di poesie di Severino Cesari «Le armate del conquistatore», uscite da Dispacci di Bologna

di FRANCO FORTINI
Severino Cesari, i lettori del manifesto lo conoscono bene. Anch’io lo conosco e lo considero di molto e raro valore. Oggi egli pubblica un consistente fascicolo di versi (Le armate del conquistatore) come secondo numero dei «Dispacci di poesia» che si pubblicano a Bologna. Non vorrei dire nulla del sistema di impaginazione e fascicolatura, che rende pressoché impossibile la lettura a persone passabilmente normali, (la nota editoriale li chiama infatti «anomali») perchè credo si tratti di un intenzionale sistema di ostacoli destinato dagli stampatori ad un pubblico «selettivo e selezionato» (si legge ancora) perché, soffrendo, goda a farsi selezionare e confermi che l’accesso all’arte non può disgiungersi dall’ablazione rituale dei canini o dalla perforazione del setto nasale così rispettata presso gli aborigeni. Per fortuna quei suoi versi ho potuto leggerli anche in forma dattiloscritta. E mi sono persuaso che Cesari ha vivissime qualità, oltreché intellettuali, poetiche.

La prima cosa che si avverte è una volontà di sperimentazione formale che implica molte figure foniche, come rime burlesche o parodistiche, allitterazioni, polimetrie; e di giuochi grafici. E una di sperimentazione tematica con argomenti tratti da storie e geografie reali o immaginarie, desolazioni urbane, ombre amorose, letture, scialbi eventi. Le dissonanze sono simili a quelle di certi oggetti grafici o pittorici dove convivono pop art, collage, iperrealismo, citazioni e graffiti; e dove l’essenziale è una sapiente sbadataggine che con tali rovine puntella il crollo circostante. Tutto questo in Cesari – anche perché in altri o in noi – ha una unità, o la cerca, non nella soggettività che parla ma in un’area culturale «assolutamente moderna», una fascia generazionale e internazionale, dove ci sì intende a mezza parola, destinatari o complici per i quali le allegorie sono manifeste.

Tutta una parte dì queste poesie è registrazione dell’illimitato «usa e getta» e sembra aver sostituito intorno a noi e in noi stessi l’esistenza, qualcosa come l’atroce «no return» scritto nei vetri di certe bottiglie. Sembra, ma sembra soltanto; perché – secondo un ormai secolare procedimento lirico – la dichiarazione, gridata o mormorata, dell’orrore non si risparmia, nel paradiso o inferno formale, un risarcimento dell’orrore medesimo. In questo caso, nella amorevolezza consapevole e negli affetti della solitudine.

«Non c’è niente che inviti al verso più della carta quadrettatata». Mi sbattezzo se questa cadenza e serie sillabica non ha il suo precedente nazionale nel primo decennio del secolo corrispondendo come quella poesia, da Govoni a Palazzeschi, al ricorrente «disincanto» di chi si riteneva venuto troppo tardi. In questi versi la questione non è di generazione né di psicologia. Si ha l’impressione che sia tutto un corpo sociale nei suoi molteplici aspetti e conflitti, e soprattutto nella sua lingua, ad essere colpito da una sorta di sonnolenza, attraversata da brevi lampi di angoscia.

Da questo punto di vista le poesie ironiche o polemiche o epigrammatiche o di rapido consumo, le dolci arlecchinate affidate al giuoco delle amarezze, tra Laforgue e Verlaine, non sono quelle che amo di più. Sebbene mi renda conto che sono necessarie a quelle più lente e larghe, di versi su cinque o sei accenti, lassi,vacillanti e dolorosi. Si direbbe che l’autore medesimo abbia avuto qualche incertezza nel raccogliere le cinque parti del fascicolo e poi nel distribuirne la complessa cronologia. Ma si capisce dalle date che le composizioni delle diverse serie si intersecano fra loro e che dunque è probabilmente sbagliato contrapporre le poesie maggiori a quelle ironiche o polemiche. Ma Cesari non è mai semplice. Ad esempio, i versi sui morti delle Falkland debbono qualcosa al tono di cronaca nauseata che è di molti versi di H. M. Enzensberger. Ma, nei versi indirizzati a questo medesimo autore, la critica o autocritica è davvero senza pietà: «epperò sapendosi amministrare, senza sciuparsi troppo con cose da poco. /In modo da salvare, nel rispetto del frammentario,/ quel tanto di generale che si addice al pungolatore di coscienze, e scrittore./ Un tentativo davvero astuto di preservare la specie». Ci riconosciamo in molti.

Il vecchio lettore, o meglio, il lettore vecchio che so di essere, suppone che per le poesie meno «transitive» di Cesari ci siano dei compagni di generazione e si sente fin troppo bene che Severino non sa rimuoverli, anzi con ansia e rabbia ne spia il giudizio. Sono questi altri «ego» ad ingombrarlo, non meno che l’eccesso dei propri doni. È quello che volevo dire quando scrivevo che non si tratta di una individualità o tutt’al più di una individualità che si rifiuta come tale e invece di una situazione di generazione o di ceto; né mi pare piccolo elogio:«stanchezza, non è stanco l’universo? E una barra d’uranio, l’ultima, / dolcemente penetra dolcemente spingendosi nel reattore».

Ma c’è un’altra fronte di questi versi. Questa intelligenza, oltraggiata dal mondo nel quale viviamo, che continua a non farsene una ragione ma ad ogni costo vuole evitare gli accenti dello sdegno perché, peggio che inutili, li sa complici, situa qua e là, fra la polvere di culture e allusioni, ora il ribrezzo della atrocità ora una certezza enigmatica di fondamento, di indistruttibilità. Bisognerebbe citare dalla sequenza Askatasuna (la parola, in basco, vale «libertà» e una nota informa che quella parola la sibila il vento tra i fori di un monumento sulla costa atlantica) dove si parla di una «pietra siderale di classificazione incerta» o di «durezza impensata», che viene reperita «pescando cadaveri nel fiume».

Per l’autore che ossesso di pudore ostacola continuamente il senso, ossia la direzione, delle proprie parole, nasce una assoluta e disperata rivendicazione di integrità: «ma l’innocenza mi protegge». Qualcosa di simile si legge anche nella serie che dà il titolo all’opuscolo. «Non è straniera questa terra è la nostra» dice il disfatto viaggiatore. E la nave parla in questi bellissimi versi di allegoria: «Poi che passammo le colonne d’Ercole/ un vento sottile prese a soffiare da nord. / Tu che freddo hai il cuore al pari di me/ ricordi forse di essermi stato compagno/ nella tua ripetuta morte e nella mia». E, ancora una volta, «duro l’oggetto», la durezza della oggettività.

Ogni volta che Cesari incontra questa alterità non recuperabile, questo qualcosa che resiste al troppo pieno delle sue operazioni intellettuali, egli ci dà passaggi pieni di senso. Come quando, nella serie L’incavo del fulmine ricorda: «Chissà davvero non torni di nuovo indecente pericoloso mostrare ciò che resiste» e si affida alla elegia nel ricordo della persona (a lui come a me cara) cui è dedicata la sequenza, Paola Cusumano: «È l’incavo del fulmine sulla tua guancia il canto che ti fu rivelato».Una nota confida questa coincidenza di distruzione e di vittoria ad un’opera di mistica indiana di quel Rudolf Otto, il cui libro II Sacro, scritto quando nacqui, lessi verso i vent’anni… Forse qui non seguo più Severino; ma fin dove l’ho potuto seguire c’è di che dovergli gratitudine.

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