«Per riaprire la scuola bisogna ripensarla, non basta vaccinare i prof»
Covid Intervista a Lucia Bisceglia, presidente dell’Associazione Italiana di Epidemiologia
Covid Intervista a Lucia Bisceglia, presidente dell’Associazione Italiana di Epidemiologia
Lucia Bisceglia è la presidente dell’Associazione Italiana di Epidemiologia. Ieri l’Aie ha tenuto un convegno virtuale sul tema «Covid & Scuola», un tema tornato caldissimo. Il convegno, a cui hanno partecipato epidemiologi di tutta Italia, ha passato in rassegna i dati raccolti fin qui e la lista delle cose da fare per riaprire le scuole in sicurezza a settembre, scongiurando per quanto possibile il ricorso alla Dad.
Dottoressa Bisceglia, abbiamo capito se riaprire le scuole sia pericoloso?
C’è tuttora un problema di mancanza di dati. Ma le evidenze che abbiamo accumulato ci dicono che l’epidemia nella scuole è uno specchio dell’epidemia nella comunità, e non ci sono prove che la scuola inneschi catene di contagio. Le scuole hanno lavorato tantissimo alle misure di prevenzione. D’altra parte, se raccontiamo i grandi focolai scolastici è perché non sono stati così frequenti. Il problema vero è l’impegno dei servizi di sanità in presenza di un caso positivo nella scuola: servono squadre dedicate a test e contact tracing perché ogni singolo caso porta con sé l’esigenza di tracciare e isolare i contatti.
Come si può migliorare la prevenzione del contagio a scuola?
Alcune esperienze sono di grande valore. Ad esempio, quella della regione Piemonte che, con il progetto “Scuola sicura”, ha implementato una strategia di screening. Tuttavia, abbiamo visto provvedimenti molto diversi tra una regione e l’altra, e andamenti epidemici simili: anche questo supporta l’idea che la scuola rifletta quanto accade nella comunità. Tutto lo sforzo ora deve mirare a dotare i dipartimenti di prevenzione e i servizi di igiene e sanità pubblica di strumenti che facilitino l’attività di test e isolamento. Chi partecipa a un programma di screening, tuttavia, corre un maggior rischio di isolamento e questo è un deterrente. Dunque occorre trovare un compromesso che garantisca l’adesione a questi programmi.
L’85% del personale scolastico si è vaccinato: è abbastanza?
Se confrontiamo questa media con quella relativa alla vaccinazione anti-influenzale scopriamo che è una percentuale altissima. Ma si tratta di una media tra situazioni molto eterogenee. Ci sono regioni in cui questa percentuale è trenta punti inferiore. Il personale scolastico era tra le categorie prioritarie nel piano vaccinale. Era importante proteggere una comunità professionalmente esposta in un contesto in cui un solo caso positivo può portare all’isolamento di intere classi o addirittura alla chiusura delle scuole. L’intervento sul personale scolastico è essenziale per il rientro a scuola in sicurezza per tutti.
C’è stata diffidenza nei confronti dei vaccini, o disorganizzazione nella campagna vaccinale?
È un dato difficilissimo da reperire. La struttura commissariale è molto concentrata su questo tema. Secondo me, ma è solo un’opinione, ha giocato un ruolo il fatto che il vaccino di elezione fosse AstraZeneca, quello più discusso. Questo può aver ridotto l’adesione. In ogni caso vale la pena di provare ad aumentare questa copertura vaccinale.
Dunque è la priorità verso settembre?
Non è la priorità. Non si deve correre il rischio di spostare l’attenzione solo sul tema delle vaccinazioni. In realtà i problemi della scuola sono rimasti gli stessi: stiamo ancora discutendo del numero di studenti per classe e del distanziamento. L’emergenza può essere un’occasione per ripensare gli spazi della scuola, le modalità di trasporto degli studenti. Erano temi caldi l’anno scorso e lo sono anche quest’anno. È prioritario ragionare su misure strutturali che intervengano anche su questi aspetti. La priorità della campagna vaccinale ora è aumentare al massimo il completamento del ciclo vaccinale nelle persone di età superiore a 50 anni o vulnerabili. Le stime ci dicono che ci sarà un aumento della variante delta e non possiamo lasciare gli over 50 esposti all’azione del virus.
Da un anno discutiamo del tracciamento dei contatti, che è stato spesso insufficiente. Si può fare o dobbiamo rassegnarci alla sua impossibilità?
Abbiamo imparato che l’epidemia ha una risposta giusta diversa a seconda della fase. In una fase di sostanziale calma come questa il contact tracing gioca un ruolo fondamentale. L’identificazione e l’isolamento precoce dei contatti stretti e il testing precoce dei contatti stetti è un’attività che facilita l’interruzione delle catene di contagio. L’altro elemento cruciale è isolamento dei focolai e la rassegna delle circostanze di esposizione, che aiutano a orientare il contact tracing verso situazioni prioritari, e a suggerire misure di restrizione mirate e non generalizzate. Come epidemiologi, siamo tutti convinti che il contact tracing vada potenziato, reso omogeneo e utile come strumento di conoscenza. Però c’è un problema di tempi. Pensavamo di avere qualche giorno in più ma è già il caso di investire tutte le risorse a disposizione.
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