Luca Mercalli: «Per resistere fuggiamo in montagna»
Intervista Il climatologo Luca Mercalli riflette sulla necessità di «prendere quota» per combattere l’emergenza climatica e gettare le basi per un nuovo futuro: «Servono risorse, qui c’è lavoro per i prossimi 20 anni».
Intervista Il climatologo Luca Mercalli riflette sulla necessità di «prendere quota» per combattere l’emergenza climatica e gettare le basi per un nuovo futuro: «Servono risorse, qui c’è lavoro per i prossimi 20 anni».
Luca Mercalli risponde al telefono dalla sua baita di Vazon, un gruppo di case arrampicate a 1.650 metri sul livello del mare, sulle Alpi Cozie. «Sono qui in Alta Valle e la borgata è deserta dopo una sfolgorante giornata di sole» racconta.
È il 2 di novembre. La valle di cui parla è la Val di Susa, e una foto notturna di quella baita campeggia sulla copertina dell’ultimo libro di Mercalli, Salire in montagna (Einaudi, 2020, 17,50 euro). È un diario e racconta i tre anni in cui il presidente della Società meteorologica italiana, glaciologo, climatologo e bravissimo divulgatore scientifico ha maturato e realizzato con la moglie Sofia l’esigenza di «prendere quota per sfuggire al riscaldamento globale» come spiega il sottotitolo.
Salire in montagna oggi è diventare partigiani del XXI secolo, scrivi nel libro. Perché?
Il periodo storico della Resistenza ha visto nella fuga in montagna un’azione necessaria per resistere ma anche per porre le fondamenta di un nuovo futuro, di un nuovo Stato. Oggi la fuga è dagli effetti dei cambiamenti climatici, per guardarne gli effetti drammatici da un punto di osservazione privilegiato. Se durante la seconda guerra mondiale chi saliva in alto lo faceva per vedere le colonne militari, oggi tra ghiacciai e fenomeni nevosi in montagna c’è tutto un mondo di sentinelle precoci sul riscaldamento globale. È da qui è possibile far nascere visioni diverse di futuro. La bellezza della montagna è qualcosa di antico, l’idea della contemplazione estatica è sempre valida e anche io ho scelto un posto che mi piace. Ma – e rispondo qui alle critiche più frequenti che mi sono già arrivate dopo aver pubblicato questo libro – salire in montagna non è un richiamo generico, che farà sì che un sacco di gente raggiungerà la montagna, contribuendo così a rovinare l’ambiente. Nel libro pongo paletti, non dico affatto «avanti tutti». È certo però che in montagna c’è posto, perché ne abbiamo liberato tantissimo in questi cinquant’anni di spopolamento. Così servono criteri per regolare un ritorno: non costruiamo città in montagna, ma recuperiamo quello che c’è, anche se l’esempio della mia baita di Vazon mi dimostra che è complesso. Tra vent’anni, vedremo: abbiamo davanti vent’anni di lavoro per recuperare quello che oggi sta cadendo a pezzi. In quel momento, dopo che avremo ripristinato l’esistente, rifletteremo su ciò che cosa altro bisogna fare. Questo processo dev’essere governato da un punto di vista politico, con un programma omogeneo da Bolzano al Gennargentu. L’ambiente di montagna è ovunque, è la spina dorsale dell’Italia.
La tua montagna sono le Alpi. Che cosa rappresentano per te?
Uno spazio omogeneo che non ha frontiere. Una heimat, con i significati benevoli e positivi di questa parola: un luogo geografico in cui sento delle affinità. Sono capitato qui, a Vazon, ma quest’avventura avrei potuto viverla anche nelle Dolomiti. Non è casuale, però: farsi partigiani è anche questo, affrontare difficoltà; la sfida è portare nella mia montagna piemontese, nelle Alpi Occidentali forse un po’ «sfigate», dal punto di vista dell’evoluzione sociale e della qualità della vita, cose che altrove – in Alto Adige, in Trentino – funzionano. Nel ristrutturare la baita ho scelto di copiare il meglio che c’è nelle Alpi di tutte le nazioni. Era, comunque, una scelta dovuta: sono di qui, le mie origini sono in queste vallate, a un’ora di macchina dal centro di Torino, dove ho lavorato, studiato e sciato. Oggi esploro questo territorio, mi faccio montanaro.
Il tuo libro è anche una denuncia delle cose che impediscono una reale valorizzazione dell’ambiente di montagna, sbandierato nei programmi politici. Pubblichi anche una specie di decalogo, la «Carta di Vazon».
L’elemento centrale che ha reso difficile il recupero della baita è la burocrazia. In montagna, dove già ci sono difficoltà della geografia da superare, la burocrazia a mio avviso è in grado di scoraggiare qualsiasi impresa di questo tipo, specie quelle di ragazzi giovani, con spalle meno larghe delle mie, che arrivo qui e a questo progetto quasi a fine carriera, con mezzi economici e tempo che vent’anni fa non avrei avuto a disposizione. Le difficoltà della montagna sono evidenti: si lavora per pochi mesi all’anno, con la neve la strada è chiusa, tutto è più caro, compresi i trasporti per l’edilizia e il costo del lavoro, perché anche i tempi dello spostamento degli operai hanno un prezzo. A fronte di tutto questo, mi aspettavo uno «sconto» di burocrazia, una maggiore cooperazione. E invece in Comune (a Oulx, ndr) non ho trovato la minima facilitazione e conto migliaia di telefonate con i professionisti che mi hanno seguito. Ho partecipato per trent’anni a convegni sul futuro della montagna, oggi mi dico che la realtà è un’altra: siamo vittime di una «montagna di balle», perché quando da cittadino ho avanzato richieste di risorse minime – per riparare una frana, per valorizzare il forno pubblico, per la strada d’accesso, per l’arredo urbano della borgata – la risposta è che i soldi non ci sono.
Leggere «Salire in montagna» aiuta però a capire il valore del lavoro artigiano.
In montagna c’è lavoro per i prossimi vent’anni, e le case vecchie, da riqualificare, hanno bisogno di un approccio artigiano, di persone abituate al contatto vivo con la pietra e con il dettaglio. Amazon non è ancora in grado di farti la casa. La ristrutturazione di una baita è patrimonio del sapere artigiano, che dovrebbe essere passato ai giovani, andando a bottega. Sarebbe importante non interrompere questa catena. Questo tipo di lavoro non si può delocalizzare. Nel nostro caso, anche tutto il materiale è prevalentemente alpino: il legno è arrivato dalla Francia (le travi del tetto) e dall’Austria (il pavimento), ma avrebbe potuto arrivare anche dall’Italia se esistesse una filiera del legno. Questi elementi si fondono con le nuove tecnologie: se l’involucro è fatto di materiali antichi e locali, dentro la casa c’è un cuore tecnologico nuovo: l’isolamento termico, la pompa di calore, i pannelli solari che metto in funzione domani, 3 novembre.
Nella tua esperienza il freno della burocrazia colpisce anche le possibilità per lo sviluppo locale.
Il problema è semplice: nulla è tagliato sulla misura della montagna. Nella ristrutturazione ho avuto esclusivamente il vantaggio dell’ecobonus, che però è uguale per tutti gli italiani (65% sull’efficientamente energetico, 50% sulla ristrutturazione), ma queste non sono politiche speciali per la montagna. I bandi, invece, non tengono conto, ad esempio, della difficoltà di accedere alla terra, dell’estrema dispersione e parcellizzazione della proprietà in montagna. Che cosa può fare un ragazzo di 25 anni che voglia venire a Vazon a coltivare erbe officinali?
Il tuo libro esce nell’autunno del 2020. Sono passati quasi 15 anni dalle Olimpiadi invernali di Torino, che ha toccato la tua Alta Valle. Quale eredità per la montagna?
Zero. Non c’è sviluppo, solo le macerie degli impianti. È la logica delle grandi opere, che qui continua con il supertunnel TAV per la Torino-Lione. Le Olimpiadi in piccolo hanno prodotto lo stesso sistema: un sacco di soldi sprecati, e l’ho capito meglio parlando con gli artigiani che mi hanno ristrutturato la baita, che su quei cantieri hanno lavorato. La pista da bob di San Sicario la vedo da Vazon, all’imbrunire, uno scandalo: è un pezzo di montagna violentato per 15 giorni di follia sportiva.
A Vazon hai «acceso» una piccola stazione meteo. Che ci dice?
Grazie ai ponti radio ho un buon wi-fi, posso lavorare quassù e consultare anche da remoto i dati meteorologici. Tre anni non fanno statistica, ma denotano una tendenza, a cui sono allineati: le stagioni sono mediamente più calde e anche più asciutte, nevica di meno. Ricordo la stagione degli incendi nel 2017, con i fumi che rendevano rossa l’atmosfera. Nell’autunno di quell’anno, mentre io ero ancora titubante sull’acquisto dalla baita, a due passi da qui, a Susa, è andato a fuoco il Rocciamelone. È il più grande incendio della storia delle Alpi.
I consigli di mema
Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento