I briganti hanno rappresentato per le nuove generazioni politiche del Mezzogiorno degli ultimi quarant’anni un’idea, la possibilità di mettere in discussione l’ordine costituito da una prospettiva popolare e meridionale, a prescindere dai caratteri concreti del brigantaggio storico post-unitario. Essi sono stati al centro di una politica dell’identità che spesso, però, ha dimenticato le diseguaglianze e il conflitto di classe che hanno caratterizzato le regioni meridionali anche durante il periodo borbonico.

Si può partire da queste considerazioni per presentare il libro Il rovescio della nazione. La costruzione coloniale dell’idea di Mezzogiorno scritto da Carmine Conelli per Tamu edizioni (pp. 240, euro 16), che ha al suo centro il tema dell’identità, ma anche quello dell’inferiorizzazione dei gruppi e delle classi subalterne del Sud d’Italia dall’Unità fino ad oggi. Questa costruzione è stata caratterizzata dal razzismo agito dai rappresentanti politici e intellettuali delle classi ricche del Nord, assecondato anche da quelli meridionali, sia durante il Positivismo che successivamente, fino alla politica della Lega Nord, con l’atteggiamento di chi, dal Nord, «si è arrogato il diritto di spiegare il Sud, i suoi atteggiamenti e i suoi costumi».

QUESTO APPROCCIO orientalista verso il Mezzogiorno non è stato sconfitto neppure con le lotte sociali che, specialmente tra gli anni ’60 e ’80 del secolo scorso, hanno visto protagoniste le classi popolari del Sud. Gli operai meridionali al centro del ciclo di lotte vittorioso nei primi anni ’70 nelle fabbriche del Nord, immortalati nel libro Vogliamo tutto di Nanni Balestrini, il cui protagonista è l’operaio salernitano Alfonso Natella, così come gli operai di fabbrica e quelli dell’economia urbana dell’area metropolitana napoletana protagonisti, con i movimenti dei disoccupati organizzati, delle lotte per il lavoro, la salute e la casa, non sono stati sufficienti a rimuovere l’idea di un Mezzogiorno privo di soggetti subalterni capaci di organizzazione e conquista autonoma dei diritti.

Questa capacità di difesa di un orizzonte collettivo, fatto di giustizia per tutti, è assente anche nelle rappresentazioni più recenti, tanto in quelle delle fiction televisive che narrano un Mezzogiorno esotico, solare e genuino, come nella serie Gomorra, capace di ridurre la realtà di Napoli e Scampia ad una criminalità organizzata spettacolarizzata, ignorando tutto il resto, ad esempio il ventennale lavoro sociale svolto nel quartiere de Le vele.

È COME se sul Mezzogiorno gravasse una condanna: quella di essere una omogenea realtà letta in negativo, il non-Nord, la modernità impossibile. È una costruzione coloniale, che utilizza quelle retoriche sviluppate a partire dalla Conquista dell’America che dividevano il mondo civile, quello dei conquistatori, dal mondo selvaggio, quello della colonia. Questa lettura, intrisa di quella che Anibal Quijano ha chiamato colonialità, dunque gerarchia, non passa: il tempo, le trasformazioni storiche, le lotte sociali e politiche non l’hanno cancellata dall’archivio sul Meridione ma anche da quello meridionalista. Carmine Conelli, invece, ha scritto un libro in cui spiega perché «oggi certamente non possiamo più dirci meridionalisti». La comprensione del Mezzogiorno non si può fare in contrapposizione al Nord, come vuole, invece, ampia parte degli studi storicamente riconosciuti sulla Questione meridionale, ma anche, seppure con contenuti del tutto diversi e infondati sul piano storico, la corrente neoborbonica che si è diffusa negli ultimi venti anni.

Il Sud, nell’attualità così come nella lunga storia durante l’Unità d’Italia, è una realtà diseguale al suo interno, attraversata da conflitti di classe, così come è un tessuto economico che sta dentro il più ampio sistema-mondo, fatto di rapporti di forza e fratture che si definiscono a livello internazionale, oltre il solo riferimento al Nord d’Italia. Il Sud, dunque, non è comprensibile come il rovescio del Nord, come l’errore, il popolo sbagliato, a cui si contrappone ciò che è corretto, il popolo che deve fare da punto di riferimento. Esso va compreso, seguendo l’analisi del materialismo geografico di Gramsci così come quella operaista di Luciano Ferrari Bravo, nell’ambito della politica economica nazionale, per la quale la subalternità del Sud è stata una necessità per l’economia del Nord e per la conservazione degli assetti di potere generali. Le stesse trasformazioni intervenute nel Sud vanno inquadrate in una relazione di dipendenza di fondo con il Nord: una relazione necessaria allo sviluppo capitalistico del Settentrione, nella quale il Meridione ha funzionato come polo debole di una dialettica in cui le forze dello sviluppo rimangono collocate altrove.

LA SUBALTERNITÀ meridionale è stata prodotta dentro rapporti di forza svantaggiosi, a cui le categorie coloniali del ritardo, della mancanza di senso civico o dell’incapacità organizzativa – o le categorie dell’inferiorità costitutiva meridionale – hanno dato un contributo simbolico e politico determinante. La rilettura del Mezzogiorno dal suo interno, dunque anche dalle lotte e conquiste che hanno visto protagoniste le classi popolari, è l’alternativa radicale a questa colonialità, da cui il Sua, con le sue popolazioni, è chiamato a liberarsi.