Per non dimenticare il genocidio di rom e sinti
Ogni strage, la sua memoria e la sua rievocazione portano con sé, fatalmente, una contraddizione crudele e un limite insopportabile. Accanto alle vittime riconosciute e onorate, si apre un vuoto […]
Ogni strage, la sua memoria e la sua rievocazione portano con sé, fatalmente, una contraddizione crudele e un limite insopportabile. Accanto alle vittime riconosciute e onorate, si apre un vuoto […]
Ogni strage, la sua memoria e la sua rievocazione portano con sé, fatalmente, una contraddizione crudele e un limite insopportabile. Accanto alle vittime riconosciute e onorate, si apre un vuoto dove si smarriscono quelle ignorate, negate, e infine rimosse. Secondo gli storici più accreditati, nei campi di sterminio nazisti gli uccisi di religione ebraica sono stati oltre sei milioni: eppure questo numero spaventoso e inconfutabile è stato contestato e negato.
Ciò ha contribuito a produrre una sorta di smemoratezza collettiva, fino all’oblio, dell’eccidio di altri gruppi e minoranze. Quali, sempre all’interno dei lager, le duecentocinquantamila persone con disabilità, le migliaia di omosessuali, i trentamila tra socialisti, comunisti e massoni, i quaranta-cinquantamila internati militari italiani, i duemila testimoni di Geova. Questi i numeri, secondo le stime più attendibili.
In altre parole, si può dire che tutti gli «scarti» della collettività – sotto il profilo sociale, fisico, culturale e ideologico – hanno dovuto pagare un tributo alla macchina della tirannia e al dispositivo dell’annientamento, secondo una gerarchia di sangue che combinava insieme antichi odi e recenti ostilità, lungo un percorso che portava dalla discriminazione all’ostracismo, dall’ostracismo al genocidio.
Non poteva mancare, in questa procedura dell’orrore, il nemico rappresentato da rom e sinti. Dai quattro e i cinquecentomila fra loro furono trucidati nei campi di concentramento. Ma la storia delle popolazioni romanì, dal Medioevo fino a oggi, vede accumularsi diffidenza su diffidenza, oppressione su oppressione: dai bandi d’espulsione alle accuse di stregoneria, dalle leggi speciali contro il nomadismo e l’accattonaggio fino alla sterilizzazione forzata delle donne. Inscalfibile e di secolo in secolo rinfocolato, lo stereotipo dello zingaro deviante e criminale per natura, irrecuperabile alle norme del vivere collettivo e irriducibile a ogni inclusione si ritrova in tutta Europa. Anche in Italia. E, ancor più, durante il regime fascista.
«Ferme restando disposizioni impartite in precedenza circa respingimento aut espulsione zingari stranieri disponesi che quelli nazionalità italiana certa aut presunta ancora in circolazione vengano rastrellati più breve tempo possibile et concentrati sotto rigorosa vigilanza», così ordinava una circolare telegrafica firmata l’11 settembre del 1940 dal capo della polizia Arturo Bocchini e indirizzata a tutte le prefetture del Paese.
Da quella data, con ancor maggiore accanimento, in Italia la «piaga zingara» fu combattuta attraverso la persecuzione, il rastrellamento e l’internamento delle popolazioni rom e sinti. Il fascismo realizzò una rete di campi di concentramento riservati, oltre che agli oppositori politici, a loro: il primo fu l’ex tabacchificio presso Bojano, poi il vicino paese di Agnone, sempre in Molise, e ancora centinaia di rom e sinti arrestati vennero tradotti in campi situati a Berra, a Tossiccia, a Prignano sulla Secchia, a Castello Tesino, a Gonars, a Ferramonti di Tarsia, a Vinchiaturo, a Casacalenda, alle Isole Tremiti.
Di tutto ciò quasi non c’è più traccia nella memorialistica ufficiale e nella storiografia nazionale. Si trova appena qualche segno, come per esempio quella targa che ricorda il campo di internamento, collocato nell’ex convento di San Bernardino ad Agnone.
Qui si svolgerà domani una manifestazione, promossa dall’Ufficio Nazionale Anti-discriminazioni Razziali, per celebrare la giornata della memoria, il Porrajmos (il grande divoramento). Il sedici maggio è la data che ricorda quando, in quel giorno del 1944, i rom e sinti reclusi ad Auschwitz opposero resistenza all’azione di rastrellamento finale dei militari nazisti.
Azione che, ripetuta due mesi e mezzo dopo, portò all’uccisione di circa tremila persone. Chi più se lo ricorda? Questa cancellazione contribuisce – secondo i promotori e i partecipanti alla manifestazione e secondo l’Unione delle comunità ebraiche italiane (che ha dato il suo patrocinio) – a far sì che i rom e sinti siano considerati come fatalmente e irreparabilmente ai margini della vita sociale, e in essa non integrabili.
Qui non è in discussione se e quali responsabilità abbiano gli stessi rom e sinti in questa politica dell’esclusione, ma è certo che le istituzioni, i partiti e le amministrazioni locali poco o nulla hanno fatto, in questi decenni, per favorire una relazione, uno scambio e forme – per quanto faticose – di integrazione.
Rivendicare a viso aperto quegli eventi e la dignità delle vittime rom e sinti all’interno della più grande tragedia del Novecento è una delle strade più significative, e più urgenti, per essere parte di una storia e di un presente comuni.
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