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Per l’età digitale servono strategie aperte e inclusive

Ri-mediamo È tornata alla ribalta la questione delle concessioni per la radiodiffusione e le telecomunicazioni, che in verità hanno da tempo un altro nome: diritti d’uso delle frequenze nel campo radiotelevisivo […]

Pubblicato circa 6 anni faEdizione del 29 agosto 2018

È tornata alla ribalta la questione delle concessioni per la radiodiffusione e le telecomunicazioni, che in verità hanno da tempo un altro nome: diritti d’uso delle frequenze nel campo radiotelevisivo (dal 2012) in capo agli operatori di rete distinti ormai dai fornitori di contenuti; nonché autorizzazioni generali nelle telecomunicazioni già dalla fine degli anni Novanta.  Il tema delle frequenze ha cambiato pelle, oltre che regime giuridico.

La parte che attiene alle Tlc è largamente surdeterminata da Bruxelles. Quella radiodiffusiva ha alle spalle una storia terribile: inchieste della magistratura, rimpalli di responsabilità, stabile benevolenza verso Mediaset. Basti pensare all’anomalia di Retequattro, che avrebbe dovuto lasciare l’etere terrestre per usare altre piattaforme tecniche (satellite, cavo) ma storpiature normative e decreti ad hoc tutelarono lo status quo – tre reti a testa a Rai e Fininvest- sancito dalla legge n. 223 del 1990 (l.Mammì, appena graffiata dalla l.249 del 1997 e santificata nel digitale dal testo del 2004 dell’ex ministro Gasparri).

Per converso, va ricordato il caso di Europa7, cui pure furono affidati due canali privi -però- di frequenze di riferimento. Il passaggio alla stagione digitale poteva essere l’occasione per un ripensamento complessivo.Al contrario, ancorché si moltiplicassero da quattro a otto volte le capacità trasmissive, la transizione fu quasi di uno a uno, di fatto regalando ai principali soggetti un patrimonio enorme, con ritorni economici assai ridotti. Anzi. Nei meandri delle norme degli ultimi anni il costo dell’uso delle frequenze è stato persino ribassato. Ecco, il vicepremier Di Maio, il ministro Toninelli e il sottosegretario Giorgetti dovrebbero chiarire cosa intendono per l’evocata revisione delle concessioni, residuo dell’era analogica.
È urgente di contro riaggiornare i canoni di pagamento, elevandoli in proporzioni al valore del bene, ivi compreso l’afflusso di risorse pubblicitarie, e alla effettiva copertura del territorio.

Così come sarebbe opportuno che il governo si esprimesse sull’iniziativa di Ei Towers del gruppo Fininvest, volta a conquistare il campo delle torri di trasmissione.
La prossima puntata è la gara per le frequenze della nuova generazione della banda larga – 5G – che permetterà connessioni mobili definitivamente competitive con la rete fissa.
Per attribuire tali risorse le emittenti abbandoneranno la banda 700 Mhz entro il 30 giugno del 2022, diminuendo nettamente in quantità. Un bel pezzo verrà tolto anche alle tv nazionali che stanno silenziosamente resistendo. Il ministero dello sviluppo ha varato la road map della gara, i cui criteri furono stabiliti dall’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni.

Già sette società hanno superato la pre-qualificazione ed entro la fine di settembre si espleterà -sembra- la competizione. Quanto entrerà nelle casse pubbliche, per essere magari reinvestito verso i soggetti deboli, non profit dell’informazione? L’etere è un bene comune, trattato invece come proprietà privata. La via maestra è una sola: riprendere in mano le fila di una vera riforma (Rai compresa), partendo proprio dai principi fondativi della democrazia dei media: pluralismo, autonomia, indipendenza. L’età digitale ha bisogno di una strategia aperta e inclusiva, proprio l’opposto di quanto è avvenuto.

P.S. Voci di dentro ipotizzano per la Rai che il «caso» Foa sarà risolto attribuendogli la direzione dell’importante testata regionale della Rai.
Salvini così farebbe la faccia della vittima, ma darebbe una festa.

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