I dati ufficiali ci dicono che attualmente due milioni di famiglie italiane, corrispondenti a più di cinque milioni e mezzo di persone, si trovano a vivere in una situazione di povertà assoluta (seppure all’interno di una realtà molto “sfaccettata”, come spiegava nei giorni scorsi Gaetano Lamanna sul manifesto.. Cosa fare, davanti a questi dati? A chi spetta farvi i conti, prenderli in considerazione, farsene carico, reagirvi? La povertà è un fatto solo sociale, del quale la politica possa disinteressarsi? Naturalmente no, nella misura in cui la politica è sociale per sua natura: o è rivolta alla società, e alle persone in carne e ossa che la compongono, o non è. Ma è anche un fatto giuridico, oltre che sociale e politico? La risposta può essere altrettanto perentoria: sicuramente sì, nella misura in cui il compito del diritto dovrebbe essere quello di fornire alla realtà – intesa appunto come rete di relazioni sociali e personali – una grammatica di funzionamento, un corpo, una sostanza.

Anche al diritto, insomma, spetta di farsi carico della povertà, non meno che alla politica, e tanto l’uno quanto l’altra dovrebbero assumersi a questo riguardo compiti sia di prevenzione che di cura e correzione: di prevenzione, perché qualunque processo verso una democrazia ideale dovrebbe sempre aspirare all’eliminazione della povertà tout court, al di là della realizzabilità o irrealizzabilità del progetto immaginato; di cura e correzione, perché nel frattempo la realtà è diversa dagli ideali e la povertà continua a rappresentare un fatto, da gestire e contenere in quanto tale. I dati dimostrano proprio questo, che il processo verso gli ideali è molto lontano dal suo compimento, in Italia: come del resto lo è anche altrove, se non ovunque nel mondo (e da ultimo lo conferma ad esempio la lettura di “Una breve storia dell’uguaglianza” di Thomas Piketty, pubblicato di recente dalla Nave di Teseo).

Nei mesi passati, però, nel nostro ordinamento è stata introdotta una nuova norma di cui poco si sa e dalla cui applicazione potrebbero invece derivare conseguenze dirompenti, o che quantomeno potrebbe servire ad attutire molto la situazione di povertà generata o aggravata dalla pandemia e ora dalle conseguenze della guerra: perché si tratta di una norma che consente al debitore, a certe condizioni, di ottenere la completa liberazione dai propri debiti anche senza offrire contropartite ai suoi creditori.

La legge all’interno della quale questa norma è stata inserita è la legge sul sovraindebitamento, la legge n. 3 del 2012, dedicata a regolamentare la crisi o l’insolvenza di tutti quei soggetti che risultino esclusi dal fallimento: vale a dire dei piccoli imprenditori commerciali, degli imprenditori non commerciali, dei professionisti e dei comuni cittadini (essendo il fallimento rivolto, viceversa, ai soli imprenditori commerciali non piccoli). Già la legge sul sovraindebitamento aveva rappresentato in sé stessa una novità dirompente, nel 2012, perché fino ad allora il nostro ordinamento non aveva mai attribuito dignità di trattamento specifico alla crisi dei debitori diversi dagli imprenditori commerciali non piccoli, ma adesso è stato compiuto un passo ulteriore: adesso il debitore può arrivare addirittura a vedersi concedere la cancellazione dei suoi debiti senza pagarli neppure in parte.

La concessione non è incondizionata, com’è ovvio: il debitore dev’essere una persona fisica (nel senso che la misura non riguarda le persone giuridiche strutturate in forma societaria), deve risultare privo della benché minima risorsa e non dev’essere colpevole rispetto al suo sovraindebitamento; l’esdebitazione può essere concessa una sola volta; e l’obbligo di pagamento è destinato a rivivere nel caso in cui, nei quattro anni successivi, la situazione migliorasse. E non per forza bisogna credere che il beneficio sia stato pensato solo nell’ottica di elargire un favore motivato da ragioni morali, perché la prospettiva è più larga ed è anche quella, fra l’altro, di fornire pur sempre un supporto all’economia di mercato, di recuperare il debitore al ciclo produttivo.

Ma nella sua essenza l’esdebitazione dell’incapiente è quello che dice di essere e che in effetti è: una cancellazione completa dei debiti, senza corrispettivo, e dunque il contenitore della possibilità di una nuova vita offerta a chi si trovi, senza colpe, nella situazione di non riuscire più ad abitare dignitosamente la propria. Ed è come tale una norma che ogni buona politica, a chiusura del cerchio, dovrebbe abbracciare e promuovere. Non è forse vero che la Costituzione, nei suoi articoli sui rapporti economici, fissa il principio secondo il quale spetta a tutti – a tutti i lavoratori e a tutte le famiglie – il diritto di vivere “un’esistenza libera e dignitosa”?

L’autore è membro del Comitato direttivo dell’Osservatorio sul debito privato presso l’Università Cattolica