Servirà una corsa a perdifiato per convertire il decreto elezioni prima della scadenza. La camera, bloccata per tutta la settimana dall’ostruzionismo di Fratelli d’Italia, darà il suo voto finale solo il prossimo lunedì, in serata. Dopo di che il senato avrà appena cinque giorni per chiudere la partita prima della decadenza del decreto e non potrà che farlo con quel voto di fiducia che il governo ha voluto evitare a Montecitorio. Perché il decreto legge fissa i tempi delle elezioni e interviene sulle regole del gioco: non sta bene. In cambio, per rinunciare all’ostruzionismo e consentire a partire da oggi la votazione degli ultimi emendamenti, Fratelli d’Italia ha ottenuto qualcosa sulla par condicio. Oltre alla presenza della ministra dell’interno Lamorgese oggi in aula, qualcosa da poter rivendicare come un successo.

Per l’estrema destra parlamentare – Forza Italia e la Lega non hanno partecipato all’ostruzionismo – il problema è sempre stato il vantaggio di cui possono godere i presidente di regione uscenti, dei quali nessuno fa capo al partito di Meloni. Esattamente il motivo per cui – al contrario – anticipare le elezioni e tenerle prima che si esaurisca la spinta «emergeneziale» della battaglia al virus è sempre stata la volontà di Zaia, Toti, De Luca, Emiliano e anche del marchigiano Ceriscioli che spinge il suo successore Mangialardi (Rossi in Toscana dove corre un ex renziano è assai meno interessato). Quello che hanno ottenuto i deputati di Fd’I non è stato lo spostamento della data delle elezioni, che resta il 20 e 21 settembre. Ma un emendamento per rafforzare i poteri di controllo e intervento dell’Agcom durante la par condicio, quindi nell’ultimo mese. L’Autorità dovrà porre particolare attenzione a contenere il vantaggio competitivo dei presidenti uscenti. Non ci sarà invece l’anticipo del deposito delle firme al 31 luglio, che avrebbe fatto ricadere tutta la campagna elettorale in agosto. Ed è stata bocciata anche la proposta della destra di anticipare a luglio l’indicazione da parte dei gruppi dei candidati governatori, per tutelarli nella campagna elettorale in attesa del deposito delle firme a fine agosto. Avrebbe significato cambiare nel parlamento nazionale le leggi elettorali regionali e non si può.

Elezioni dunque il 20 settembre come da «lodo Fornaro», dal nome del capogruppo di Leu che lo ha proposto quando il governo indicava ancora il 13 settembre, il centrodestra chiedeva ottobre e i governatori in smania da riconferma luglio o il 6 settembre. Invece c’è l’urgenza dei 5 Stelle di coprire un prevedibile risultato scarso alle regionali e alle amministrative dietro la decisione di accorpare, per la prima volta nella storia, il referendum costituzionale sul taglio dei parlamentari alle elezioni. Per il sottosegretario all’interno Achille Variati (Pd), in base al nuovo testo del decreto legge «elezioni», emendato in commissione dalla maggioranza, l’accorpamento è adesso addirittura un «obbligo» per il governo. Almeno per quel che riguarda l’abbinamento alle amministrative (sulle regionali l’ultima parola è delle regioni stesse). E in effetti il testo adesso prevede che «il principio di concentrazione delle scadenze elettorali», il cosiddetto election day, si deve applicare anche a questo referendum costituzionale.

Una norma per nulla astratta ma limitata a un singolo caso specifico che, hanno scritto i senatori promotori del referendum costituzionale in una memoria consegnata al presidente del Consiglio, denuncia la consapevolezza che si tratta di una misura incostituzionale. Proprio per questo il comitato promotore – 70 senatori che firmarono a gennaio la richiesta di referendum sul taglio dei parlamentari – è orientato a presentare un ricorso contro l’accorpamento referendum-elezioni. In quanto provvisoriamente «potere dello stato» potrà sollevarlo direttamente davanti alla Corte costituzionale. Alla quale Corte tenterà di arrivare anche l’avvocato Besostri con una diversa serie di ricorsi, presentati nei tribunali ordinari per tutelare i diritti dei cittadini elettori. La stessa strada battuta per far dichiarare, anni fa, l’incostituzionalità di due leggi elettorali.