In Mortality and Music: Popular Music and the Awareness of Death (2015), Christopher Partridge scrive che «la scomparsa di un musicista richiede una risposta alla mortalità che riduca l’impatto della nostra consapevolezza dell’impermanenza». La registrazione sonora assolve da sempre anche a questa funzione, consentendoci una connessione con gli artisti scomparsi da cui deriva un’idea di sacralità e di immortalità, come dimostra il recente esempio di Now And Then.
Il 26 gennaio è uscito per Numero Uno/Sony un nuovo album di Ivan Graziani, Per gli amici. Nessuna intelligenza artificiale, nessuna riesumazione tecnologica. Un vero album di inediti, più vero di Per sempre Ivan (1999), prima opera postuma troppo diseguale e troppo a ridosso della scomparsa per andare oltre la fruizione emotiva.

CERTO, si può discutere di autenticità, della volontà dell’artista, della sua capacità di agire e di avere conseguenze effettive. Siamo però su un terreno ben diverso rispetto alle estreme reunion beatlesiane o ai ricongiungimenti in casa Cole (Unforgettable, di nome e di fatto, fu anche la faida familiare che ne seguì). In questi ventisette anni la famiglia Graziani ha tutelato la memoria di Ivan dalle invasioni mediatiche, dalle riedizioni coatte e dalla recente mania del biopic; in veste di produttore dell’album Filippo Graziani è essenziale, quasi invisibile, e con «un occhio di riguardo per il suo chitarrista» fa sì che molti brani conservino il retrogusto del provino, lasciando in evidenza il tratto paterno.
Soprattutto, diversamente dalle classiche operazioni post mortem, siamo al cospetto di un’opera composita (otto brani inediti) e coerente tanto in se stessa quanto all’interno del macrotesto discografico dell’autore. Del quale ritroviamo tutto. C’è l’inconfondibile timbro vocale, ancora da brividi quando sale di registro attraversando come una lama il mix di quelle chitarre padroneggiate come nessun altro cantautore prima di lui.

C’È LA SUA POESIA, il suo humour, il suo mondo: una provincia globale popolata da personaggi come Miley — sorella minore o nipote di Marta? — e dalle cui colline, con prospettiva inversa, si vede il fuoco sulla città (Ti sorprenderò). Coerente è il segno sonoro, il cui gioco di rimandi ci ricorda subito l’incedere di Agnese con il rullante spazzolato della seconda traccia (La rabbia, nei cui versi compare Filippo bambino), lasciandoci poi scorgere nell’Italianina qualcosa del Prete di Anghiari. C’è, nella traccia che dà il titolo al disco, la texture elettroacustica che abbiamo amato in Pigro, Modena Park e Taglia la testa al gallo, mentre La canzone dei marinai, anticipata dal rispettosissimo tributo di Colapesce e Dimartino, brilla adesso di luce propria. C’è, infine, quell’ultimo ritornello che riprende il refrain sillabico di Lugano addio sul groove di Monna Lisa. Ed è un colpo al cuore.
Perché Ivan ce lo ricordiamo proprio così, e perdiamo consapevolezza dell’impermanenza, finché la sua voce «ci parla ancora un po’ di lui».