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Per fare Storia, uscire dallo storytelling e dal bazar della fiction

Per fare Storia, uscire dallo storytelling e dal bazar della fictionGerhard Richter, Fenstergitter, 1968, Budapest, Museum of Contemporary Art – foto dal catalogo della mostra: G. R., Prato Museo Pecci, Gli Ori, 1999

Saggistica militante Alla storia progressiva si va sostituendo quella emotiva di instant books e memorie individuali: la denuncia di Francesco Benigno (il Mulino) e Carlo Greppi (Laterza)

Pubblicato un giorno faEdizione del 27 ottobre 2024

Produzioni che si qualificano storiche escono in strabiliante quantità. Da dove nasce questo bisogno di guardare all’indietro? Dalla voglia di capire le origini della svolta epocale che stiamo attraversando? Dall’illusorio desiderio di individuare nel passato le ragioni di un presente colmo di incognite? È l’inquietante incertezza sul futuro che spinge a interrogarsi su periodi e personaggi e svolte che forse contengono segreti da cui imparare? Sono i moduli audiovisivi da storytelling a dilagare. Divulgatori brillanti mandano in scena «giornate particolari». Fioccano instant books che in svelte paginette profetizzano la disfatta irreversibile dell’Occidente con toni apocalittici. Che ne è della storiografia?

Francesco Benigno, ordinario di Storia moderna alla Normale di Pisa, ha dato alle stampe per il Mulino un libro, La storia al tempo dell’oggi («Voci», pp. 176, € 14,00), che si prefigge di intervenire nelle discussioni in corso e lo fa con autorevole chiarezza, passando in rassegna i nodi principali emersi in convegni scientifici e in società di addetti ai lavori. Era un libro necessario. Secondo Benigno alla base delle invasive domande che circolano sta la crisi del Moderno, che si è sostituita all’idea di progresso e alle premesse mirabolanti che annunciava. L’Olocausto è stata la tragica e periodizzante cesura. Si sono ora aggiunte le pandemie, le sciagure provocate dal clima, il moltiplicarsi di guerre senza sbocco, la vanificazione di equilibri politico-diplomatici . L’avvenire si è fatto cupo e la percepibile storicità del presente rende difficile interpretare il passato e annodarlo a un prevedibile futuro. «A una storia progressiva – scrive Benigno –, razionale, hegeliana, marxista, scandita da stadi o tappe delineati in senso evolutivo e a un tempo disposto in senso lineare si è venuta affiancando (e contrapponendo) una storia agnostica, emotiva, incentrata sul ritorno ciclico e anzi sul cosiddetto “dramma dell’eterno ritorno”». Incombe lo spettro di Nietzsche. I fatti sono isolati e si connettono a stento in successioni comprensibili o rimangono avvolti in impenetrabili nebbie. Le nuove tecnologie mettono a disposizione degli storici e offrono al grande pubblico una messe impressionate di dati.

Ma dubbi generalizzati e scoraggianti finiscono per conferire il primato alla memoria, individuale o collettiva, resuscitano orgogli identitari, evocano drammi lancinanti di gruppi o di nazioni: «La memoria storica, questa storia fai da te, emotiva, mediatizzata, sacralizzata (…) sfida la verità storica nella sua presunzione di offrire un’unica narrazione sovraordinata». Il traguardo da raggiungere, ritengo, sarebbe, invece, quello di passare dalla memoria più o meno emotiva o dalle memorie individuali alla storia, magari senza ritenere che si possa attingere la verità, ma evitando almeno i danni di racconti animati dalla nostalgia, «una storia ricostruita alla bisogna, una storia da consumare».

Se la fase del Moderno attribuiva alla conoscenza delle cause un’impermeabilità oggettiva, oggi è in auge un «bazar postmoderno» che semina in massicce dosi scetticismo e sforna fiction, esalta il romanzesco spettacolare, l’esibizionismo autobiografico. E qual è, allora, la missione dello lo storico che non voglia arrendersi e s’impegni a serbare quanto di irrinunciabile sussiste dell’attinenza filologica e dello storicismo materialistico che non rinuncia a presentare, per quanto possibile, la realtà? Nella consapevolezza che il mestiere dello storico assomiglia all’avventura di un ginzburghiano detective alla ricerca dei Menocchio e dedito esclusivamente alla Storia con la maiuscola, si tratta di dismettere l’eurocentrismo che ha fatto da padrone e di rilevare le identità plurime – di genere, di condizione sociale, di collocazione geografica – che si intrecciano, confliggono o si corrispondono. La transnazionalità è essenziale. Quindi uno sguardo che evidenzi nella loro complessità i temi dei campi teorizzati da Pierre Bourdieu.

Insieme al benvenuto pamphlet metodologico di Benigno è uscito un libro che ha elementi affini e distanze non certo secondarie. Benigno sfiora i settant’anni e ha all’attivo ricerche di prim’ordine. Carlo Greppi è nato a Torino nel 1982: quasi un intervallo generazionale li separa. In storie che non fanno la Storia (Laterza «i Robinson / Letture», pp. 120, € 14,00) Greppi rivendica la risoluta scelta di una storia orizzontale, che risulti dalle storie e dalle esperienze di singoli o aggregazioni. Riconosce che «lo storico e la storica sono figli del loro tempo», e per questo devono impegnarsi in controtendenza nel «riscoprire o osservare da nuove angolature delle vicende umane che possono parlare al presente, che riteniamo degne di essere ricordate». Chi stabilisce confini che delimitino ciò che merita di essere ricordato? Il timbro delle sue ricerche ha una vivacità militante coinvolgente. Greppi ama più le finalità didattiche e civili che l’abusata esplorazione della «meraviglia». Le sue appassionate indicazioni si attagliano al passato prossimo. Lo scrutinio delle fonti, dice, deve includere le voci di quanti hanno direttamente sperimentato ciò di cui ci si occupa. Conviene con Adriano Prosperi nel confessarsi turbato «dalla tendenza (contemporanea ndr) a sfumare fino a negarlo il confine tra verità e invenzione, tra storia e romanzo» (2021). Per respingere accuse di partigianeria prende dal giovane Gaetano Salvemini una frase celebre: «L’imparzialità è un sogno, la probità un dovere». Da Marc Bloch trae una riflessione autocritica: «Abbiamo preferito rifugiarci nella pavida tranquillità dei nostri laboratori. Possano i nostri figli perdonarci il sangue che ci macchia le mani» (1940).

Il taglio programmatico del volume s’intrattiene sulla via da imboccare per una «manutenzione collettiva del presente», perseguendo un uso ampio delle testimonianze orali. Criteri importanti utili a correggere – con la laterziana collana «Fact Checking» da lui diretta – storture di deformanti e diffusi luoghi comuni. Ma per fare storia l’orizzontalità, spesso ignorata o marginalizzata, non deve essere disgiunta dalla verticalità. Come ha dimostrato in titoli che, magari attraverso il diario di una persona o gli umori di un quartiere, hanno saputo dipingere, della cupa fine del fascismo, vergognosi trasformismi e banali viltà.

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