In circostanze diverse la ricaduta del test elettorale sulla tenuta del governo sarebbe immediata e rilevante, forse esiziale. Le due principali forze parlamentari che sostengono il governo escono massacrate dai 16 mesi passati nella maggioranza di Draghi. La sola forza d’opposizione lucra a man bassa. Ce ne sarebbe molto più che abbastanza per cercare col lanternino una scusa per alzare i tacchi e contendere a sorella Giorgia i ricchi pascoli dell’opposizione. Solo che Salvini e Conte, ex alleati, ex nemici giurati, affratellati oggi dalla cocente sconfitta non possono farlo. Se l’uno o l’altro o entrambi si sfilassero dalla maggioranza non godrebbero per un anno o giù di lì della rendita garantita dall’opposizione. Si troverebbero di fronte alle urne spalancate da un giorno all’altro, dovendole affrontare con sulle spalle l’esperienza disgraziata (per loro) del governo. E dovendo pure scontare l’immagine di chi fa cadere un governo per calcoli di bassissima cucina, tra le più detestate dall’elettorato.

Dunque l’avvocato del popolo e il capitano degradato sono condannati a bollire nella situazione per loro peggiore. Dovranno fingere che una risoluzione sulla guerra che nomina a più riprese la pace senza cambiare nulla nel concreto valga qualcosa in più dell’inchiostro con cui è scritta. I 5S dovranno accontentarsi di un’apertura formale che ammette la possibilità di sostituire il termovalorizzatore di Roma con «strumenti equipollenti», pur sapendo benissimo che il primo cittadino della Capitale, dotato anche grazie al loro voto di poteri eccezionali, ha in mente solo l’inceneritore-monstre. Quando, ormai tra poco, si arriverà all’ultimo atto della legislatura, la legge di bilancio, strepiteranno, esigeranno, insisteranno, martelleranno. Ma sempre consapevoli che l’ultima parola spetterà solo a Mario Draghi. Il quale qualcosa senza dubbio dovrà concedere ma nei limiti da lui stesso fissati.

Sembra e probabilmente è una sceneggiatura già scritta, anche se un margine ristretto di incognite rimane. La prima e principale è la sorte di Conte. Se la settimana prossima o quella successiva il Tribunale di Napoli contesterà di nuovo la legittimità della sua leadership, l’avvocato si troverà di fronte all’ultima possibilità di lasciare la palude pentastellata per dar vita a un suo movimento. La tentazione c’è, tanto più che, a ballottaggi celebrati, Conte sa di dover affrontare un’offensiva spietata del nemico interno, Luigi Di Maio, con il disastro elettorale come atto d’accusa. Se Conte azzardasse un passo estremo come la dipartita dal M5S, pur restando formalmente in maggioranza, il governo si ritroverebbe stabile come un tavolino con tre gambe su quattro. Ma il carattere dell’uomo, poco incline a osare, e la contingenza, molto distante dall’epoca del trionfo personale, rendono l’eventualità remota.

Poi c’è la Lega e qui il guaio è più grosso. Una sconfitta nel sud è una sconfitta del capo, sgradita ma tollerabile. Perdere il nord, essere sorpassati addirittura nel Veneto, è invece inaccettabile. Salvini sarà d’ora in poi strattonato dai governisti perché smetta di criticare, dai duri perché smetta di cedere. Si terrà in equilibrio facendo molta scena, l’esercizio che meglio gli riesce, ma senza calcare la mano. Invece sulla difesa degli interessi del nord, soprattutto nella tempesta che potrebbe scatenarsi dopo l’estate, dovrà fare sul serio.
L’ultima incognita è Draghi. La tenuta del governo, salvo imprevisti che in una situazione come questa sono più che possibili, dovrebbe essere garantita. La sua efficienza invece no. Non potendo lasciare la maggioranza, Conte e Salvini saranno costretti a moltiplicare pressioni rumorose e a montare tensioni spesso fittizie che però dovranno essere oggetto di mediazioni prolungate e trattative estenuanti. Il contrario di ciò che sarebbe necessario in una situazione così difficile e drammatica.