Per chi suona l’olifante a Roncisvalle
Mostre Al Palazzo dei Diamanti, una rassegna per il cinquecentenario dell'«Orlando Furioso». Un percorso che punta sull'universo visivo e visionario che accompagnò l'Ariosto
Mostre Al Palazzo dei Diamanti, una rassegna per il cinquecentenario dell'«Orlando Furioso». Un percorso che punta sull'universo visivo e visionario che accompagnò l'Ariosto
L’Orlando Furioso, scriveva Italo Calvino «è una immensa partita a scacchi che si gioca sulla carta geografica del mondo, una partita smisurata, che si dirama in tante partite simultanee». In effetti, se si volessero riassumere le gesta del cavaliere innamorato, che perde il senno inseguendo la fuggevolissima Angelica e poi lo ritrova grazie ad Astolfo sulla Luna, ci si smarrirebbe in una selva di digressioni. Quei destini umani ostacolati da incantesimi, ma soprattutto guidati dalla presenza – realissima – del desiderio, sono un labirinto di eterne scomparse e perenni ritorni.
Mappa delle suggestioni
Guido Beltramini e Adolfo Tura, curatori della mostra di Palazzo dei Diamanti dedicata al cinquecentenario della prima edizione dell’opera (era il 22 aprile del 1516 quando le pagine dell’Ariosto vennero stampate in una tipografia ferrarese) mettono in chiaro subito una cosa: impossibile tessere una veritiera filologia dell’immaginario senza correre il rischio di cadere nella fantascienza dell’esegesi. Ugualmente sarebbe arduo ricostruire una invenzione letteraria – peraltro già infarcita di frammenti di eterogenee narrazioni – attraverso altrettante invenzioni critiche. Ma questo assunto non è una premessa che nasconde una resa incondizionata.
È possibile invece offrire in visione la suggestione dei tempi ariosteschi, ricreare un percorso che riconsegni oggi al visitatore qualcosa che gli occhi dello scrittore poterono vedere, oggetti consueti, iconografie della tradizione, «scarti» fantastici amati e ripetutamente osservati, anche soltanto quando il poeta rinascimentale – nonché funzionario di corte estense e viaggiatore diplomatico – attraversava la strada per recarsi altrove. È così che il Maestro dei Mesi, con quel cavaliere che rappresenta «maggio» inserito nelle formelle del portale del duomo di Ferrara, ha di certo lasciato una traccia di sé nella mente vivida di Ariosto. Era una presenza quotidiana, dato che fino al Settecento le sculture rimasero in loco, prima della demolizione del portale stesso e lo smembramento del complesso scultoreo di questo artista seguace delle novità introdotte dall’Antelami.
Stessa cosa può dirsi della Minerva che scaccia i vizi dal giardino della virtù di Andrea Mantegna che il poeta vide più volte nello studiolo di Isabella d’Este (quando accompagnava nei suoi soggiorni a Mantova Ippolito d’Este e come testimonia una lettera della gran dama). Qui, anzi, il riferimento è puntuale; non poteva essere altrimenti dato che nel canto di Ariosto interessato c’è in scena Ruggiero, colui che darà origine alla stirpe estense sposando Bradamante: le creature ibride, centauri e mostri vari che sono rimandate indietro dalla dea effigiata da Mantegna (i vizi) si ritrovano nel corteo di esseri deformi e spregevoli che incontra Ruggiero sull’isola di Alcina. Li combatte eroicamente e li disperde, senza riuscire però ad evitare il pericolo maggiore, il sortilegio ipnotico della maga.
Un dispositivo teatrale
La rassegna ai Diamanti (visitabile fino all’8 gennaio 2017, organizzata dalla Fondazione Ferrara Arte e dal Mibact), non facile da allestire in quanto mescola manufatti di varia natura – arazzi, corazze, selle da parata, libri, dipinti, armi – ha il merito di costellare le sale di spunti, con una metodologia interattiva che invita allo studio e all’approfondimento. Come fosse un film, suscita un interesse che va «fuori quadro». Ha alle spalle un lungo lavoro di ricognizione, condotto dai due curatori affiancati da Maria Luisa Pacelli e Barbara Guidi ed è un dispositivo centrifugo che funziona un po’ come la Biennale orchestrata da Massimiliano Gioni a Venezia nel 2013.
Lì a fare da catalizzatore per avviarsi lungo i sentieri del sogno e dell’utopia c’era il Libro rosso di Jung, qui c’è l’Orlando, motore generante di immagini da cui tutto parte e al quale tutto torna, mimando il grande gioco dei cicli cavallereschi con l’ausilio di prestiti importanti. Come quel Tiziano concesso dal Prado di Madrid, il Baccanale degli Andrii, che venne dipinto per il Camerino di Alfonso I d’Este e che torna nella città dove fu concepito per la prima volta. Non ha direttamente a che vedere con l’immaginario di Roncisvalle e dintorni, ma poeta e pittore erano a corte nello stesso periodo. Probabilmente si frequentavano, tanto che Ariosto inserì Tiziano fra i grandi artisti nel XXXIII canto della terza edizione dell’Orlando Furioso.
L’esposizione organizzata per sezioni ben delineate si concentra su alcuni macro-temi, tra i quali non possono mancare naturalmente le battaglie (da Ercole de’ Roberti al disegno di Leonardo da Vinci di Windsor), alle quali erano normalmente «portati» non solo Carlo Magno e i suoi, ma anche i padani di quel primo Rinascimento. In Ariosto, le battaglie sono sempre affollatissime, arruffate, un groviglio di uomini e animali, con descrizioni che convocano un crescendo emotivo. Nella realtà, lo scrittore al seguito del duca Alfonso fu testimone oculare della disfatta di Ravenna (1512) e della impressionante distesa di corpi ammassati a terra, ma nel mondo immaginario c’era Roncisvalle e l’imboscata dei Mori di Spagna che sterminò la retroguardia di Carlo Magno.
Tra storia e leggenda
Così, mescolando sempre i due piani, si trova in una teca l’olifante: realizzato vari secoli dopo quella tragedia storica, è un’apparizione quasi favolistica. Rimane un simbolo della dedizione di Roland/Orlando (la leggenda narra che, ferito a morte, suonò con potenza l’olifante per avvertire gli altri) e insieme è anche un pregiato oggetto artistico, intarsiato nell’avorio con motivi cavallereschi. Poi, siccome Ariosto non si dilunga troppo nel raccontare come fossero vestiti cristiani e saraceni, lasciando piena libertà al lettore, a fornire una iconografia godibile al modello del guerriero ci pensa Giorgione con il suo Gattamelata. Lo fa guardando all’antico ma correggendo la figura con un tocco romantico e un’espressione malinconica che riconduce ai tempi moderni. Allo stesso modo, san Giorgio e il drago (da Paolo Uccello a Cosmé Tura) sarà un utile tassello visivo, e la principessa potrebbe vestire un giorno i panni di Angelica.
La mostra al Palazzo dei Diamanti non può trascurare il fatto che al centro di tutto questo roboante universo fantastico ci sia un’opera letteraria e non artistica, un libro dunque. La scrittura ariostesca viene proposta con la prima edizione dell’Orlando Furioso (e anche con quelle successive), senza dimenticare il progenitore del Furioso, quell’Orlando innamorato uscito dalla fantasia del conte di Scandiano Matteo Maria Boiardo, in un cocktail potente di italiano e dialetto. A Ferrara viene presentato l’unico esemplare superstite.
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