«A Giuseppe Mazzini che, novello Catilina, nel secolo XIX seppe riunire un esercito di sacrileghi assassini ladroni falsarj libertini spie per liberare la patria da loro, e da lui». Oppure: «Da Spartaco, da Catilina, sino al secolo decimonono, l’Italia apparve il paese classico delle congiure contro le tirannidi, per rivendicare la libertà». Il confronto tra l’aggressiva dedica della spia pontificia Giuseppe Lucarelli (1831) e le parole dettate da Gabriele Rosa per l’inaugurazione del monumento mazziniano di Genova (1882) illustra bene gli opposti giudizi espressi su Catilina in tema di rivoluzioni. E di rivoluzione, infatti, si parla fin dal titolo nel nuovo libro di Luciano Canfora: Catilina Una rivoluzione mancata (Editori Laterza «Cultura storica», pp. IX-396, € 25,00). L’azione cospirativa tentata dal nobile Lucio Sergio Catilina, scoperta da Cicerone e stroncata nel sangue tra la fine del 63 e l’inizio del 62 a.C., è rimasta nella memoria come una «congiura». Di certo, come sapeva l’imperatore Domiziano, si crede alle congiure solo se raggiungono l’obiettivo; e sulle mire di Catilina e su varie fasi dell’operazione vi sono seri dubbi (l’attentato che Cicerone denunciò per attuare la repressione: fallito? sventato? mai tentato?). Dalla parte dell’oligarchia senatoria, poi, poté attuarsi una «strategia della tensione», con un pericolo ingigantito, utile per sbarazzarsi di oppositori e avversari. L’analisi minuta di Canfora suggerisce che il console, pur ben informato sulle figure coinvolte nel tentato coup, enfatizzò o minimizzò fatti nei propri scritti sulla vicenda. Troppe le variabili implicate, troppi i potenti coinvolti. Quando l’esito si chiarì, il carattere della «rivoluzione» catilinaria poté essere celato dietro l’immagine di un moto di esaltati, provvidamente arrestato dal saggio console (da solo, perché il suo collega non fu altrettanto attivo). Però «congiura» evoca duchi e corti rinascimentali: quello di Catilina fu piuttosto un «moto», paragonabile a quelli ottocenteschi, mazziniani appunto.
La memoria degli eventi è rimasta affidata al racconto (diversissimo per intento e stile) di Cicerone e Sallustio. Entrambi pongono seri problemi, e Canfora lo mostra scavando in altre tradizioni, espressione di differenti punti di vista. I discorsi di Cicerone, che ispirarono la repressione del moto, non sono tanto dei «documenti», quanto una testimonianza di strategia politica. Furono rielaborati per la «pubblicazione», con adattamenti duttili, silenzi, parzialità, secondo era necessario: lo mostra il confronto con le lettere ciceroniane coeve. Il loro scopo non era servire la verità: il console si illuse (o credette) di aver in quell’anno fatale salvato l’oligarchia senatoria, e di poter poi trarre vantaggio da un gesto, che attirò invece sospetti e nemici. Gli eventi successivi lo smentirono: gli occulti sostenitori di Catilina e gli aperti avversari trovarono un accordo, tagliando fuori il troppo compromesso console emerito. Molto spazio è dedicato a indagare il Commentario che Cicerone stesso, fattosi storico, scrisse sul proprio consolato: l’opera, perduta ma usata da Plutarco, individua le deformazioni insinuatesi nella narrazione vulgata. Canfora corregge talune idee comuni sulla fallita rivoluzione del 63 a.C., e chiarisce il nesso con la successiva vicenda romana. Mommsen, spesso richiamato, vide che la crisi catilinaria non fermò l’ascesa di Pompeo (che pure non volle o non seppe prendere pieni poteri sfruttando la situazione), ma aprì la via alla monarchia di Cesare, e al successivo cesarismo.
A Sallustio, l’altra fonte principale dell’evento, si devono pagine giustamente famose: il celebre «paradossale» ritratto di Catilina come uomo di estremi vizi e di poderose virtù, ma anche l’evocazione del memorabile scontro in senato tra Cesare e Catone, e il quadro della cruenta battaglia finale a Pistoia, onorevole per gli sconfitti. Per le sue doti di scrittore e per l’assidua lettura nelle scuole, Sallustio sembra caro a molti studiosi moderni, e più ai latinisti che agli storici: ma non è guida abbastanza attendibile. La sua vicenda è quella di un giovane provinciale, attratto in gioventù da Catilina, poi schierato apertamente con Cesare (dal quale fu infine deluso), coinvolto nella corruzione politica e poi ritiratosi a vita privata. Si fece allora storico, mentre dominavano gli eredi di Cesare, e intraprese una personale rilettura della crisi repubblicana. Per farlo, da ex-politico, travolto da scandali imbarazzanti perfino per gli standard della tarda repubblica, assunse una maschera arcigna e paradossalmente «catoniana»: uomo disgustato dal presente, espresse il proprio «tardivo» moralismo in una prosa «buffamente arcaizzante». La sua acredine verso Sempronia (la figlia di Cornelio Gracco?) «rasenta il ridicolo», venendo da chi delle donne lontane dal modello matronale aveva fatta ampia esperienza.
Non facile capire Catilina avendo a che fare con due voci avverse: un console troppo ambizioso e attento all’autocelebrazione, e uno storico efficace ma condizionato da rancori e idiosincrasie. A fronte di questa situazione, Canfora, attento alla cronologia dei testi e degli eventi, s’impegna a «scomporre» la tradizione, valorizzando la tendenza dei singoli testimoni, contro lo sforzo di creare, attraverso un immetodico «bricolage», un racconto unico e normalizzato. Esemplare l’impegno a ricostruire la data di svolgimento della tornata elettorale dell’anno 63, rinviata fino in autunno per questioni opache legate all’equilibrio delle forze. Obiettivo di simili operazioni tra filologia e storiografia, però, è la definizione del contesto del moto catilinario. Emergono così le dinamiche della politica romana, alle prese con una crisi prolungata e profonda, espressa nelle guerre esterne come nelle tensioni interne. In quel 63 a.C., mentre a Roma le elezioni erano a più riprese turbate e tenute in modi non regolari, Pompeo trionfava in Siria. E c’erano poi Cesare – asceso a pontefice massimo – e il ricco Crasso, ansiosi di far contare i propri poteri e denari. Gli esclusi dalla spartizione politica videro in Catilina la via del riscatto: divenne, la sua, anche la causa miserorum. Impossibilitati ad accedere al potere per via legale, si acconciarono alla «lotta armata» (così Canfora, attualizzando), per strappare le cariche a coloro le occupavano da generazioni, consentedo pochi varchi a uomini «nuovi» (tra cui Cicerone).
Per chi si perdesse fra tante contese, giova uno sguardo alla «Treccani». Così scriveva nel 1931 nella voce Catilina il giovanissimo Mario Attilio Levi (1902-1998): «Crasso e Cesare fecero organizzare e capeggiare a Catilina quella ‘congiura’ che, essendoci soltanto nota dalle fonti ad essa più avverse, non è generalmente conosciuta che come un audace e brigantesco colpo di mano anarchico». Il moto fu, «in altri modi e con altre forme», uno tra i colpi di mano che fecero vacillare e infine crollare le istituzioni della repubblica romana; e a Catilina andò «la parte non simpatica di chi viene mandato avanti per saggiare una situazione difficile». Tra le due guerre mondiali, gli eventi sollecitarono a ripensare a Catilina: memorabili alcune pagine di Concetto Marchesi, giustamente valorizzate nel libro. Restano numerose questioni aperte, evocate attraverso la critica e selettiva discussione di studi precedenti. Qualcuno tra i recentiores viene scoperto a trafficare con dati confusi e di seconda mano (o peggio: «l’A. si immunizza dal rischio di complicare le sue certezze leggendo scritti in tedesco o in francese o addirittura in italiano. E comunque si garantisce dal pericolo di leggere grandi opere del secolo XIX o dei primi settant’anni del Novecento»).
Di sicuro, la questione catilinaria è complicata: la tradizione ne valutò variamente la pericolosità, vedendovi ora una disorganizzata «banda di corrotti indebitati guidati da un ribaldo», ora una sommossa dal vasto seguito, da reprimere con inflessibilità, oltre le regole «costituzionali». L’efficace parola (o scrittura) di Cicerone ha costruito un fittizio monumento alla forza della politica (e infatti egli campeggia nell’affresco di Maccari a Palazzo Madama), ma la realtà fu anche altra. Per i complici di Catilina furono sospese le garanzie legali previste per i cittadini romani e la loro condanna a morte, eseguita da Cicerone, restò un punto giuridico e politico controverso. Il console emerito scontò con l’esilio quella scelta. Poi perse la percezione delle dinamiche politiche, fino a pagare con la vita, nel 43, l’affermazione della fazione a lui avversa. L’idea che Catilina non fosse un mostro ma una sorta di Garibaldi, però perdente, non è di oggi: Machiavelli confrontava i giudizi sul vinto Catilina e sul vittorioso Cesare, notando come «chi vuole conoscere quello che gli scrittori, liberi, ne direbbono (di Cesare ndr), vegga quello che dicono di Catilina». Chissà se gli appassionati passati e presenti di Cesare e marce su Roma comprendono lo stretto legame di Cesare con il temibile Catilina, rivoluzionario e schierato con i miseri.