Per arrivare a zero ci sono voluti millenni di cultura
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Per arrivare a zero ci sono voluti millenni di cultura

Materia oscura L'«invenzione» del numero è frutto di un'evoluzione per nulla scontata, sulla quale riflettono ancora oggi neuroscienziati ed etologi
Pubblicato 3 giorni faEdizione del 25 ottobre 2024

Che lo «zero» sia un numero può apparire ovvio da un lato e assai misterioso dall’altro. Oggi sappiamo come si eseguono i calcoli aritmetici con lo «zero»: ad esempio, sappiamo – o dovremmo sapere tutti – che ogni moltiplicazione per zero dà zero, ma che la divisione per zero non è definita. Non è stato però semplice integrare lo zero nei nostri sistemi numerici. Pare che siano stati i matematici indiani tra il terzo e il sesto secolo dopo Cristo i primi a trattare lo zero come un numero, con un’intuizione sorprendente propagatasi in tutto il mondo. «Ogni volta che è entrato in contatto con altri, il risultato è stato l’adozione del sistema indiano, tutt’al più con diversi nomi per i simboli» ha scritto il cosmologo e storico della matematica John Barrow per descrivere il successo dell’invenzione. E così oggi insegniamo già alle elementari che lo zero non è altro che il numero che arriva prima di «uno», e che in quanto tale va trattato.

Tuttavia, che un cervello animale – anche il nostro lo è – interpreti lo zero come un numero, e che non sappia solo manipolarlo matematicamente seguendo certe regole, non è affatto ovvio. Molte specie possiedono il cosiddetto «senso approssimativo della numerosità» e sanno riconoscere se un insieme è più numeroso di un altro. Gli esperimenti sulla matematica degli animali sono tantissimi e hanno dimostrato che diversi primati e alcuni uccelli sanno ordinare delle quantità e riconoscerne la numerosità più o meno come fa un bambino nei primi anni di vita.

Al contrario, i neuroscienziati e gli etologi hanno sempre faticato molto per accertare se il cervello di questi animali collochi lo «zero» all’inizio della scala dei numeri. Se cioè sappiano riconoscere che lo «zero» è l’attributo numerico di un insieme vuoto. Per riconoscere un vassoio di cioccolatini vuoto, infatti, un corvo potrebbe associare allo zero non la il numero dei cioccolatini (assenti) ma il suo colore uniforme o ogni altro stimolo che a noi, abituati a contare i cioccolatini, potrebbe invece passare inosservato. E anche se associasse la vuotezza del vassoio allo zero, non è chiaro se l’assenza sia interpretata come un numero da collocare nella stessa scala degli altri a fianco dell’«uno».

Per capire se un corvo, uno scimpanzé o un bambino stanno pensando allo «zero» come a un numero, gli scienziati si affidano al cosiddetto «effetto distanza». Sappiamo infatti che il senso della numerosità permette agli animali di distinguere più facilmente il 3 dal 9 che il 3 dal 4. Il nostro cervello impara i numeri collocandoli su una scala immaginaria in cui tanto più i numeri sono vicini e tanto più facile è confondersi su quale venga prima e quale venga dopo.

Recentemente, come riporta la rivista di divulgazione matematica Quanta, i due neuroscienziati Andreas Nieder e Benji Barnett hanno dimostrato in due esperimenti diversi pubblicati su Current Biology che effettivamente anche con lo zero si verifica l’effetto distanza. Per farlo hanno studiato la risposta neuro-elettrica corrispondente in volontari umani adulti. Dunque il nostro cervello colloca anche lo «zero» su una scala. È la conferma di altri esperimenti recenti, di cui il biologo Giorgio Vallortigara e la giornalista Nicla Panciera hanno fatto una gustosissima divulgazione in Cervelli che contano (Adelphi, 2014). Di quel saggio però rimane in gran parte inevasa una domanda: se anche un bambino o uno scimpanzé collocano naturalmente lo zero sulla stessa scala degli altri numeri, come mai ci sono voluti millenni di storia e cultura prima di indicare lo zero con un simbolo?

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