Michele Raitano, professore di Politica economia alla Sapienza di Roma, lei nell’ormai lontano 2011 lanciò la proposta di pensione contributiva di garanzia per precari e giovani. Ora, oltre a essere nella piattaforma dei sindacati, ne parlano anche Boeri e De Bortoli. Sarà la volta buona?
Pur nel dramma sociale legato al fatto che i problemi prospettivi degli attuali lavoratori sono stati senz’altro aggravati dalla pandemia, la cosa positiva oggi è la consapevolezza che molti commentatori e politici hanno del fatto che molti lavoratori, se le loro carriere non dovessero evolvere positivamente, nonostante carriere lunghe rischiano di avere pensioni di importo veramente limitato, tali da necessitare interventi di assistenza. Un rischio aumentato dal vuoto legislativo legato all’abolizione dell’integrazione al minimo. La pensione di garanzia in questi anni è stata come un “Aspettando Godot”: già nel 2016 veniva richiamata nel verbale di intesa fra Governo e parti sociali e faceva parte di una proposta di riforma Nannicini, all’epoca consulente economico del governo Renzi; poi nell’agenda della commissione Catalfo del 2019. Ora è entrata nel dibattito sui grandi media, anche se ognuno usa il termine un po’ come vuole.

I nostri lettori conoscono bene la proposta: un pavimento di 990 euro lordi al mese a 65 anni con 40 anni di attività, intesi come gli anni di lavoro compresi quelli con buchi contributivi a causa della precarietà. Con il vantaggio di costare solo al momento del pensionamento.
Sì, è una misura che rispetta le caratteristiche del contributivo: una garanzia che cresce quanto più sei attivo e quanto più tardi vai in pensione. Una misura di tutela che ti indennizza a fine carriera se hai ottenuto meno di quanto si reputa equo che venga garantito. Rispetto all’ipotesi di riempire direttamente i buchi contributivi dei precari ora – che sarebbe considerata spesa corrente e aiuterebbe anche chi poi dovesse poi avere carriere adeguate – ha il vantaggio di spostare la spesa in avanti, in gran parte dopo la gobba pensionistica prevista nel 2040 quando andranno in pensione gran parte dei figli del boom e degli anni ’70. Intervenendo ‘ex post’ al momento del pensionamento, la misura destinerebbe poi la spesa unicamente a quelli effettivamente con problemi di inadeguatezza della pensione; non riguarderebbe infatti coloro, che dopo anni di precariato, hanno fatto una carriera stabile. Infine incentiva ad impegnarsi a lavorare, dato che la garanzia cresce con l’attività o l’età di ritiro.

Draghi però non ne ha mai parlato, limitandosi allo spot: “Torniamo al più presto al contributivo” che in verità è sempre rimasto. Invece i sindacati chiedono la flessibilità in uscita dai 62 anni che di certo non si può fare con i 611 milioni previsti in manovra per il 2022.
Sono rimasto un po’ sorpreso dal fatto che una persona così preparata dicesse una cosa del genere. Il metodo contributivo – tanto verso, tanto ricevo, tenendo conto dell’età in cui mi pensiono – in Italia c’è dal 1995 e la sua applicazione è stata velocizzata dalla riforma Fornero del 2011. Mi auguro che Draghi intendesse dire: “sfruttiamo il contributivo per dare flessibilità in uscita”, avviando così la discussione che dovrebbe avvenire l’anno prossimo. La flessibilità dell’età di ritiro è incorporata nell’idea stessa di contributivo (la riforma del 1995 prevedeva infatti una fascia di pensionamento flessibile fra i 57 e i 65 anni) e ormai già insita, almeno in parte, nel nostro sistema pensionistico nei prossimi anni andranno in pensione persone che, in gran parte, hanno metà assegno già calcolato con il contributivo. La flessibilità significa poter anticipare rispetto all’età fissata dalla Fornero per la pensione di vecchiaia: ad esempio andarci a 64 anni invece che a 67 con una riduzione del 3% per ogni anno di anticipo sulla parte retributiva corrisponderebbe con 3 anni di anticipo a un taglio di circa il 5% dell’assegno. Si tratta di una logica che comporterebbe impatti di spesa solo per anticipi di ‘cassa’ ma che non comporterebbe sbilanci di lungo periodo. Ci potrebbe quindi essere un problema di cassa se in tanti la usassero subito ma il numero di persone che uscirebbero anticipatamente appare a logica contenuto. Ne è dimostrazione lo scarso numero di beneficiari di misure con penalizzazioni nell’importo come Ape volontaria e Opzione donna e la stessa Quota 100 – una misura inefficiente e iniqua – che ci ha mostrato come solo un terzo degli interessati la ha richiesta, nonostante non avesse una penalizzazione monetaria esplicita.

Se la flessibilità è un principio generale è anche vero che non tutti i lavori sono uguali: ogni settimana ci sono edili morti sul lavoro a 70 anni.
Giustissimo e di fatti va lodato il lavoro meritorio della commissione Damiano che con criteri scientifici ha allargato le mansioni più gravose che comportano una aspettativa di vita più bassa. Detto questo, per non penalizzare queste categorie servono coefficienti tarati con età di vita più alta e paletti meno stringenti perché l’Ape sociale sia uno strumento che realmente mandi in pensione le persone che ne hanno bisogno.
Alcuni considerano la previdenza integrativa come alternativa alla pensione di garanzia…
Non è così perché i lavoratori precari non si possono permettere di versare ad un fondo integrativo. Paradossalmente è stata la riforma Fornero ad affossare la previdenza integrativa perché con età pensionabili così elevate i lavoratori con carriere decenti non hanno più bisogno di integrare la pensione pubblica contributiva; l’unico vantaggio chiaro è rimasto quello fiscale usato generalmente dai più abbienti, trasformandolo in uno strumento regressivo, dato che a partecipare alla previdenza integrativa e beneficiare così degli sgravi non sono certo i lavoratori più svantaggiati.

Serve la separazione fra spesa previdenziale e assistenza? Abbasserebbe la quota di Pil spesa in pensioni, considerata troppo alta in Italia? Lei fa parte della commissione ministeriale in materia.
In realtà, il tema non appare cruciale ai fini del dibattito in questione. Le problematiche di spesa riguardano, infatti, il bilancio pubblico complessivo e non di dove classifico specifiche sotto-voci. Vi sono poi spesso confusioni teoriche sui criteri usati per distinguere previdenza e assistenza. Ma su questi temi torneremo quando il lavoro della Commissione sarà concluso.