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Pensare oggi Ottone Rosai

divano

Divano La rubrica settimanale a cura di Alberto Olivetti

Pubblicato più di un anno faEdizione del 30 giugno 2023

Che Ottone Rosai (1895-1957) vada oggi ristudiato e come, più semplicemente mi chiedo, pensare oggi Rosai?

Nell’aprile del 1937 Rosai pubblica su «Il Frontespizio» una breve Autobiografia. Vi si legge: «Chiuso il periodo avanguardista della giovinezza. Chiusi i mondi del popolaresco e del teppismo, avvertivo chiaramente che l’artista aveva ormai da riordinare i frutti dell’esperienza e della partecipazione umana alla vita per maturarli nella trasfigurazione amorevole e razionale dell’arte. Ripresi contatto con ansia, con sforzo e con timore dei lapis e della tavolozza e soprattutto cercai ritrovare in me quell’amore che sempre avevo portato per certe creature destinate a vivere come di nascosto alla stessa vita».
Osservo un suo disegno firmato e datato Otto Rosai 1940.

La carta avorio reca le tracce della conservazione tra altri fogli consimili e di diverso formato, tracciati a matita o a pastello, raccolti in una cartella appoggiata ora su una mensola, ora dimenticata su uno sgabello dello studio. Questo lapis del 1940 delinea un ragazzo sdraiato, le braccia conserte intorno alla testa dalla capigliatura folta reclinata all’indietro e non sollevata; il profilo del volto, con quelle labbra dolcemente serrate, la linea regolare del naso e gli occhi chiusi nell’abbandono del corpo disteso. L’esile e asciutto torace è nudo, come consiglia il tepore del pomeriggio estivo nella penombra dello studio. Il suo ventre è nascosto tra le pieghe di certi calzoncini corti donde si sfilano le gambe a formare, divaricate, un doppio gioco di linee replicato dalle cosce, dalle ginocchia, dai polpacci a stabilire armoniche reciprocità. Il giovinetto dormiente si distende lungo il margine superiore del foglio quasi a descrivere un arco a tutto sesto, ché Rosai lascia pressoché intatta la metà inferiore della carta ad eccezione del margine sinistro, dove penzola la gamba sinistra del ragazzo. Non v’è traccia di un canapè o di un letto o d’una panca dove quel giovane corpo si sia lasciato avvolgere dal sonno.

L’effetto che Rosai ne ottiene è quello di membra sospese, rese leggere tanto da essere agevolmente portate dal sonno a planare in un volo. Un volo senza gravezza come avviene talvolta dei nostri corpi in sogno.

Mostra Rosai in questo disegno un desiderio di pulizia e serenità amorosa che forse solo un altro mondo consente agli umani di vivere. Quel primo pomeriggio tiepido, quel giovinetto assopito e lo sguardo del pittore che lo ritrae sono di quella eterea serenità la effimera anticipazione o una crudele illusione? I giorni del 1940 oltre il silenzio di quell’ora pomeridiana sono fragore di guerra in Europa, strepito d’armi e grida di dolore come in Europa in questi giorni del 2023.

Mi piacerebbe poter dire che, se c’è la pittura e c’è il pittore, tento di internarmi qui nel Rosai pittore. Sospendo per un momento la questione di come e se si sciolga compiutamente, senza residui, nell’opera sua l’artista e di come e se non sia sommamente improprio e fuorviante parlare di pittore a prescindere dalla pittura. Mi sovviene tuttavia un giudizio di Pier Carlo Santini: «Per Rosai la necessità di oggettivarsi un problema di cultura, il bisogno di porsi in relazione tra la sua opera e l’altro da sé, il tempo esterno, non sono mai esistiti. Tale splendido egocentrismo è molto significativo ed è parte sostanziale del suo mondo».

E allora star qui, in questo disegno, vicino al pittore, al montaliano suo male di vivere.

Intuisco che un plesso in Rosai – di disagio, di rovello, di pudore, intendo – si avvolga attorno alla sua dimensione amorosa, pur se non so quanto gli amori possano, nell’intimità, esser stati felici per Ottone. Dimensione interdetta ed esecrata dalle convenzioni dominanti e minacciata e perseguita da leggi scritte e non scritte. Pur considerando che la felicità e l’infelicità in amore assai spesso corrono appaiate, tuttavia sappiamo bene che gli amori interdetti e sanzionati a cagione del ceto o del censo, delle credenze o dei costumi, già solo per le costrizioni che subiscono alla nascita, crescono storti, si sviluppano per armonie compresse che liberano sovente defatiganti disarmonie.

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