Penna, il commerciante di poesie: di quadri
La pittura è stata la compagna per la vita di Sandro Penna, viaggiatore insonne. Per quanto si vede nella sua poesia, con i quadri Penna ha avuto commerci estetici ad alta densità, traducendo l’arte per gli occhi al piano verbale, non con ecfrasi occasionali, né solo creando immagini, come la poesia fa; ma doppiando la pittura su un altro piano, di vere e proprie equivalenze verbali; e trattandosi di poesia, qualcosa di più ancora: come un’operazione sostitutiva, dipingendo tramite parole.
Una scorribanda tra i versi di Penna al solo scopo di metterne in rilievo i tratti cromatici darebbe risultati degni della tavolozza di un artista di grande scuola. Basterebbe la serie addensata in una sola poesia di Stranezze: le figure opache che si vedono appena accennate sullo sfondo e segnalate dalla lucentezza dei secchi; il rosso acceso dei pomodori (segreto «come un cuore») in un campo verde; le luci d’argento del mare che per sinestesia paiono percepibili quali campane mattutine; un’altalena ferma nel buio, in attesa della tanta luce dell’alba; e, per explicit, una vera e propria natura morta: «Tre rape mezza mela ed una triste/ macchina di cucina vecchia d’anni/ sonnecchiano su un tavolo non viste».
Talvolta, Penna sfiora perfino il fermo-immagine o la fotografia, come in Lezione di estetica: «sotto il riflettore/ risplendono i colori di una diva/ che seminuda scende giù in platea». Ma fin dall’inizio, da una poesia all’altra: uomini nudi e leggeri che escono dal mare «nati in silenzio come i suoi colori» (la pittura, arte del silenzio…); il mare tutto azzurro e tutto calmo; gli alberi alle finestre negli azzurri mattini; il vento libero che «modella i corpi/ e muove il passo ai bianchi marinai»; e ancora «i verdi chiari» e le «bianche camicie stampate sul verde». Soprattutto, nella poesia prediletta e germinale, nella luce incerta, «un marinaio giovane: l’azzurro e il bianco della sua divisa, e fuori/ un mare tutto fresco di colore», ovvero, come capitò di osservare in una lontana occasione, un mare appena dipinto.
Un mare tutto fresco di colore è il titolo scelto per la mostra dedicata, esplicita il sottotitolo, a Sandro Penna e le arti figurative presso la Galleria Nazionale dell’Umbria di Perugia fino al 14 gennaio (a cura di Roberto Deidier, Tommaso Mozzati e Carla Scagliosi; i primi due curano anche il catalogo dallo stesso titolo: Magonza, pp. 280, € 30,00).
Vi si mette in evidenza l’altro commercio che il poeta ebbe con la pittura a partire dal commercio conoscitivo, se in Penna e le immagini Deidier cita un appunto giacente in una delle riscritture della poesia sul mare tutto fresco di colore: «Alle volte guardo il mondo con una specie di trasognata apertura di obbiettivo cinematografico. Tutte le cose mi si rivelano agenti in una musica incostringibile fuori del suo orchestrale disordine: con lo stesso lirico stupore che mi prende alle prime decise battute di una inaspettata musica. Quell’automobile che incrocia quell’uomo, là in fondo alla strada, è un movimento musicale necessario a tutta la sinfonia»: fuori di metafora musicale, l’immagine percepita come generica si precisa man mano, fino a giungere a visibilità tale da imprimersi quasi di per se stessa sulla pagina.
Nello stesso scritto si ricorda un passo di Cesare Garboli: «Penna è il solo poeta, a mia conoscenza, che tratti le sue poesie come fossero quadri. Le poesie di Penna vivono isolatamente, separatamente. Ogni tanto Penna fa delle mostre. Raggruppa olii, acquerelli, gouaches, sanguigne, tempere ecc., iscrivendo queste poesie in grandi aree cronologiche. Ma più spesso le porta in giro come fossero quadri da vendere. Le porta sotto il braccio, chiuse in vecchie buste commerciali, naturalmente manoscritte. Le porge, come fanno i pittori, distogliendo gli occhi dalla pittura: questa è brutta, questa è bella. Questa potrebbe essere bellissima. Questo l’ho già detto cento volte. Il guaio di Penna è che i suoi “quadri” sono tecnicamente riproducibili all’infinito senza perdere nulla né della loro aura, né della loro originalità. Peccato. Altrimenti Penna sarebbe oggi ricco, ricchissimo come lo era Picasso. O continuerebbe a essere povero, chissà. Povero come Rosai, come Morandi».
Una bella intuizione, restata sul piano dell’impressione e che avrebbe meritato dallo stesso Garboli qualche sviluppo che andasse oltre la bella analogia – spruzzata con un po’ di Benjamin – e oltre il semplice rapporto poesie-quadri / raccolte di poesie-mostre: dunque, Penna commerciante in quadri / Penna commerciante in poesie ecc. Però seminale, benché non più e non prima del docufilm di Mario Schifano.
In Penna, la sua collezione, le arti a Roma dal dopoguerra agli anni Settanta, Mozzati nota come, tolte due eccezioni (Fazzini e Vespignani), dentro l’intera produzione del poeta sia arduo trovare citazioni di pittori e di quadri, o dichiarazioni che aiutino a comprenderne il rapporto con le arti visive. Però, col suo e con lo scritto della Scagliosi su Penna e gli artisti della Scuola di Piazza del Popolo, siamo non solo alla ricostruzione di un contesto, ma all’interno del mondo di immagini e di creatori di immagini del quale, a suo modo, Penna fu un personaggio insieme eccentrico e centrale: le foto che lo ritraggono, sfogliando e risfogliando il catalogo scandiscono il rapporto con i pittori prediletti in una serie di approfondimenti, come tagli di luce che scoprano cose nuove e riscoprano le già note: De Pisis, Mafai, Gentilini, Lo Savio, Manzù, Isoleri.
Accanto agli autografi e alle edizioni prime e preziose, mentre si è presi dalla grafia di Penna in bella copia, ma più nella stesura dei diari (una partitura, per dare seguito all’immagine dell’orchestra, e talvolta anche la carta scorrente di un elettrocardiogramma), ad accogliere è Orfeo Tamburi, col ritratto del poeta sdraiato di tre quarti su un prato di Villa Borghese, a piè di Villa Medici, poggiato sul gomito sinistro e che pare aver appena rilasciato sull’erba, interrompendo la lettura, un libro o forse un quaderno: un Penna un po’ Dejuner sur l’herbe un po’ Olympia, però vestito, con completo e cravatta.
Poi, per contesto e per contrasto, l’Irving Penn degli intellettuali al Caffè Greco, e i ritratti colorati da Mucchi, Guzzi, dall’immancabile Carlo Levi e da Melli, Mafai, Maccari, Pasolini. E da Giosetta Fioroni, presente anche con la maiolica di una casetta sospesa tra l’accenno di un prato e due tratti di cielo e siglata sul bordo «Io vivere vorrei addormentato». E i ritratti stupendi in bianco e nero nelle foto di De Martiis, Angeli, Rastelli, con la serie di Penna privato e intimo di Becchetti.
A seguire, gli artefici del primo incontro con la contemporaneità o il passato prossimo, tra i cavalleggeri di Fattori e un nudo maschile dalle forzute cosce, forse di Carrà: Sironi, De Chirico, de Pisis; e Gentilini, Cagli, Bartolini: un intero universo fino a Guttuso, Morlotti, Vespignani e oltre.
La collezione di Penna era tanto ricca quanto nascosta, occultata a scanso di malintenzionati, anche dietro la carta da parati, prima di essere riposta e malamente protetta dalle intemperie.
La sola elencazione d’altro impedirebbe di fermarsi là dove sta l’ispirazione della sua poesia: sta in quei ritratti di marinai e di ragazzi dai corpi disincarnati, tutti linee leggere appena sfiorate da ricordi di colore, però conservando intatti l’eros e la seduttività, in essenza, come nelle fotoincisioni dei marinai di Prieto – con quelle mani intrecciate; e come nelle xilografie di Cocteau di nudi o seminudi, con quei due ragazzi interamente attorti e quasi fusi in uno: che, guardandoli, pare di sentire rimormorare i versi famosi: «Tu morirai fanciullo ed io ugualmente./ Ma più belli di noi ragazzi ancora/ dormiranno nel sole in riva al mare.// Ma non saremo che noi stessi ancora».
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