Il paese d’origine a quello in cui migrano, dal centro di Lisbona in cui lavorano alla periferia in cui vivono, dalla loro famiglia a quella dei datori di lavoro. Sono le storie di sette donne, assistenti familiari, provenienti da Capo Verde, Brasile, e altre ex colonie portoghesi, raccontate sul palco in Pendulum, regia di Marco Martins, artista portoghese, classe 1972, che lavora fra teatro, cinema e video arte, e premiato nei maggiori festival. Lo spettacolo punta il riflettore su temi attuali e urgenti come la migrazione, il lavoro di cura femminile, e il passato coloniale. Al centro della drammaturgia, scritta in collaborazione con la scrittrice Djaimilia Pereira de Almeida, ci sono le biografie delle attrici non professioniste. Pendulum è andato in scena a Bologna in esclusiva italiana all’interno del Progetto internazionale Prospero Extended Theatre, di cui Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale è partner, e del Focus Lavoro, un programma di spettacoli dedicati al tema. A febbraio sarà a Porto, Montijo e Berlino. Abbiamo incontrato Marco Martins.

Perché ha scelto di occuparsi di questi temi?

Il regista Marco Martins, foto di Rita Quelhas

Negli ultimi anni il mio impegno teatrale ruota intorno alla forza lavoro, al modo in cui la classe operaia sta cambiando. Dopo la pandemia il ruolo delle donne che si occupano delle pulizie e della cura di anziani e bambini è emerso in maniera evidente. Finora mi ero occupato solo dei portoghesi emigrati, per la prima volta ho rivolto l’attenzione sui migranti stranieri in Portogallo. Il fenomeno sta cambiando, molte donne partono sole, lasciando i loro bambini in Africa o Brasile, per prendersi cura dei nostri. Questo movimento pendolare è forte anche fra i quartieri in cui abitano e il centro della città in cui sono impiegate. È un movimento fisico e soprattutto emotivo. Non ho scelto solo le persone, ma le storie, le vite da raccontare. Ho trascorso del tempo con le protagoniste per costruire la struttura insieme. Sono storie personali che diventano universali, c’è anche un livello di finzione in cui le donne mescolano le loro vite a quelle di altre. Le battute non sono frutto di improvvisazione, ma al testo hanno aggiunto le loro memorie. A volte i ricordi sono simili, particolari ma simili, e allo stesso tempo universali. Ci sono anche i sogni dell’infanzia su cosa avrebbero voluto fare da grandi e fatti traumatici, nitidi, alcuni confusi e sfocati che vogliono dimenticare.

«Pendulum» si muove fra un dentro e un fuori, quello delle famiglie in cui lavorano e dei paesi in cui si stabiliscono. Donne che ci sono, ma non sono inserite nella comunità. C’è uno straniamento?

L’aspetto più importante è l’idea di un movimento essenziale per raggiungere un equilibrio. Se l’Europa rimane statica e chiusa non ci sarà possibilità di trovarlo, il mondo deve girare e le persone muoversi, ma non abbiamo ancora trovato il modo giusto. Abbiamo bisogno di queste persone, considerando l’invecchiamento della popolazione europea, ma non stiamo ancora lottando per dare ai migranti i giusti diritti. Basti dire che molte delle donne sul palco non hanno i documenti pur lavorando da anni… Questo è un tema molto più controverso per paesi come l’Italia o il Portogallo che hanno avuto una lunga storia di migrazione. Manca empatia. In questa storia è molto forte anche la memoria del colonialismo e della violenza subita, che su di loro è maggiore in quanto donne. Il tema della famiglia è molto importante, come l’idea di casa: averne una e dove, e cosa si consideri davvero casa. Per alcune non è sempre chiaro, lo è invece dove si trovano le loro famiglie. Casa è dove sono le radici. Per me la famiglia è un soggetto centrale, forse quello che tiene insieme tutto questo, come per le lavoratrici che si sentono responsabili, anche economicamente, verso i loro affetti.

È stato difficile portare le loro biografie sul palco?

Sì, molto. Per essere onesti si deve raccontare la storia ogni volta come se fosse la prima, così è come se fosse sempre un nuovo interlocutore. Questo permette che si possa ravvivare l’urgenza, se il racconto diventa una rappresentazione meccanica, l’effetto è molto diverso.

Lo spettacolo inizia negli spogliatoi del Supermercato Europa. È una metafora del mercato dei lavoratori?

Vero, è dove si compra la forza lavoro, le lavoratrici. Le donne sono come merci. In quel luogo sono in attesa di qualcosa, non sanno se verranno chiamate per un lavoro o se saranno mandate via.

Cosa rappresenta «Pendulum» per lei?

Il teatro è un importante medium per la democrazia, se non ci fosse forse non avremmo ascoltato queste donne e le loro storie. Nel quotidiano non sappiamo chi sono, sono invisibili, hanno una voce, ma non è pubblica e non viene ascoltata. Il teatro è un riflesso del presente, c’è un’urgenza molto chiara, lo spettacolo è un’occasione per accendere l’interesse sul tema.