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Pellegrinaggi estetistici di una figlia di Huysmans

Pellegrinaggi estetistici di una figlia di HuysmansUna delle vetrine allestite dalla contessa de Béarn nell’Hôtel de Béhague a Parigi

Jean-David Jumeau Lafond, "Martine de Béhague. Une esthète à la Belle Époque", Flammarion Lo studioso francese ricostruisce magistralmente la vita della contessa di Béarn, che fuggì misticamente fra le gemme, Bisanzio, i re di Francia...

Pubblicato circa un anno faEdizione del 10 settembre 2023

Collezionista, mecenate, viaggiatrice, Martine de Béhague, contessa di Béarn, fu una delle personalità più eminenti del suo tempo, come emerge dal lavoro esemplare di Jean-David Jumeau-Lafond Martine de Béhague Une esthète à la Belle Époque (pref. Valentine de Ganay, Flammarion, pp. 240, euro 59,00). Un solo difetto: l’aver troppo isolato, per devozione al soggetto, l’eccezionalità del carattere della contessa, piuttosto che interpretarlo come tipico prodotto di un’epoca. Ché, se il temperamento personale poté predisporre la contessa verso il misticismo idealista, questa condizione era ai suoi tempi diffusa non meno della malinconia presso la generazione romantica. Perfettamente incastonata nel suo milieu al punto da poterlo esprimere con una vivacità ineguagliabile, ella fu un enfant du siècle… ma del secolo di Huysmans. E vien da pensare che Taine, nella sua concezione meccanica dei rapporti fra cultura e ambiente, avrebbe trovato in lei una perfetta verifica delle sue idee.

Certo, dopo la delusione del matrimonio, ella dovette sentire d’una maniera sinceramente platonica molti dei suoi rapporti, ma non più di quella sua contemporanea, la baronessa Deslandes, che una volta disse al suo consorte, mentre lo ammirava nudo nella vasca da bagno: «Vous seriez parfaitement beau sans cette petit chose que vous avez là…». Come molti, trovò una compensazione nell’arte, senza, però, che questa fosse una soluzione affatto originale. La sua amica, Élisabeth de Gramont, duchessa di Clermont-Tonnerre, non la pensava molto diversamente quando affermava che «il vero collezionista è colui che cerca di soddisfare un bisogno complesso, cerebrale e sensuale assieme», fintantoché «i begli oggetti che ci circondano distraggono dall’idea della morte e donano allo spirito il sentimento dell’eternità attraverso il passato». L’arte consola della paura della fine e del vuoto sentimentale, così la pensava anche Edmond de Goncourt che, nell’introduzione a La maison d’un artist, notava come, ridimensionato il posto della donna nel pensiero maschile, l’interesse di molti uomini si fosse «in gran parte riversato su oggetti belli e inanimati, la passione per i quali acquista un po’ la natura e il carattere dell’amore».

Ora, di questo «piacere solitario al quale si abbandona tutta la nazione» e che appunto «deve il suo sviluppo al vuoto, al tedio del cuore» non era forse preda anche la contessa di Béarn per la quale, scrive Jumeau-Lafond, «all’amore degli esseri si sostituirà ben presto, in una certa qual maniera, l’amore dell’arte e della bellezza sotto tutte le sue forme come vocazione salvifica»?

Jean Dampt, “Comtesse de Béarn”, 1897, Parigi, d’Orsay

Affascinata dal Medioevo languido di Burne-Jones (e non si può dubitare che, durante la sua visita al Cimitero acattolico di Roma, ella abbia indugiato sulla tomba dell’autore de La belle Dame sans merci nella posa pensierosa in cui venne scolpita da Jean Dampt), acquista una squisita statuina in bronzo, avorio, opale e diamanti, sempre del Dampt, Le Chevalier et la féé Mélusine e la destina alla Sala del cavaliere, uno studiolo ricavato durante i vigorosi lavori di rinnovamento del palazzo di famiglia, rue Saint-Dominique.

Il suo interesse per lo spiritualismo medievale si accompagna, come in de Gourmont, alla passione per le gemme e per le loro misteriose implicazioni («amo molto le opali», confessa, «di tutte le pietre che conosco sono quelle più curiose e dai riflessi più vivaci. Che importa la sfortuna di cui sono portatrici? Si può essere infelici senza opali») e, ça va sans dire, alla fascinazione per Bisanzio. Bizantino fu, infatti, il più stupefacente degli ambienti della casa, predisposto da Martine de Béhague per accogliere, mercé alcuni innovativi accorgimenti tecnici di Mariano Fortuny, la Gesamtkunstwerk o opera d’arte totale (non era, d’altra parte, anche il suo modello originale, il Festspielhaus di Bayreuth, nato dal capriccio d’un loclupetato esteta, Ludwig II di Baviera?). D’Annunzio, che aveva auspicato una simile rinascita teatrale ne Il fuoco, ne è entusiasta, Robert de Montesquiou canzonatorio: «Hélas! Elle a du moins su rendre compatibles/ la prière et la danse, en logeant le Bon Dieu/ Et Thespis à la même enseigne en un lieu/ Dont on ne sait s’il est le théâtre ou l’Église».

Come appariva ai visitatori? «Le mura sono rivestite di differenti sfumature d’oro matto e una luce diffusa, giocando con questi effetti, intensifica il carattere sacerdotale del luogo. La volta è parata d’un velluto color paglia. Dal soffitto scendono drappi di seta e antiche stoffe che hanno una funzione decorativa e acustica insieme. Un vasto numero di tappetti persiani è disposto sul pavimento o fa mostra di sé da balconi e parapetti, di modo che l’ambiente ne acquista un fasto e un’opulenza orientali». Un che di vago e spirituale conferiva unità a una sala nella quale il Compianto sul corpo di Cristo di Gérard David, la Visione di San Bernardo della Vergine e del Bambino di Simon Marmion o ancora una Vergine e il Bambino in una chiesa, copia da Van Eyck, convivevano con avori e calici di Costantinopoli, fibule ostrogote e gioielli longobardi: una visione quantomeno sincretica dell’Impero d’Oriente, ma non più fantasiosa di quelle che potevano leggersi in quegli stessi anni nei romanzi di Jean Lombard o da Paul Adam.

Hans Hoffmann (attrib.), d’après Albrecht Dürer, “Granchio morto”, coll. priv.

Ma la curiosità della contessa di Béarn non si esaurisce nella costruzione di questa falotica dimora. No, una smania di viaggiare la prende: forse vorrebbe far propri quei versi del Keats «Much I travelled in the realms of gold». Dai cantieri David & William Henderson and Company si fa costruire nel 1903 una nave, alla quale dà un nome eloquente: Nirvana. Su questo battello volge a Istanbul, poi in Grecia e in Libano; in una seconda crociera raggiunge l’Asia, passando per l’Egitto e spingendosi fino al Giappone. Non si tratta naturalmente di semplici viaggi, ma di pellegrinaggi artistici: a Pechino compera un gran numero di vasi e di pitture; a Nanchino visita la città vecchia, trovandola «commovente per lo splendore decaduto ma incancellabile», mentre a Kyoto rimane impressionata dalle opere d’arte custodite nel palazzo di Honmaru.

Intanto, sulla terraferma, sotto i suoi ordini viene restaurato il castello di Fleury, che aveva ospitato Luigi XIII e Richelieu (la fissazione per la Francia dei re è un’altra delle passioni che la contessa, collezionista di Watteau e di Fragonard, condivide col suo secolo), e l’Hôtel de Sully, una nobile costruzione seicentesca butterata da incrostazioni moderne. È in questi luoghi che finisce i suoi giorni? Tutt’altro. Il nuovo vento dell’arte primitiva soffia impetuoso sul vecchio mondo, lacera le vetuste tappezzerie Luigi XV, rovescia le porcellane di Meissen, disperde la polvere di Bisanzio. L’Empire à la fin de la décadence invoca la vitalità del sangue barbaro. La de Béhague acquista una proprietà nella penisola di Giens a Hyères, arredandola di numerosi oggetti d’arte tribale. È il medesimo gusto di Gauguin, del quale possiede un acquarello, Couple assis vu de dos, e del Picasso del periodo africano. Le mura ostentano una vasta animaleria, con dipinti di Anna Morstadt e di John Swan, sulle mensole e nelle vetrine pendagli maori e pettorali provenienti dall’Isola di Pasqua. Nemmeno La Polynésie, questo il nome della villa, fu una creazione unica, se non per finezza e per gusto. Inimitabilità di grado, dunque, e non di genere, se uno dei pezzi più particolari della collezione, il pettorale Rei Miro, si può oggi ammirare al Centre Pompidou sul «mur André Breton».

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