Cultura

Pellegrin, la testimonianza senza compromessi

Pellegrin, la testimonianza senza compromessiIraq, 2016 – Paolo Pellegrin, Magnum Photos (courtesy of the artist)

Intervista Un incontro con il fotoreporter, membro della Magnum. I suoi scatti sono in mostra a Milano, presso il museo diocesano Carlo Maria Martini, per celebrare i settant'anni della celebre agenzia

Pubblicato più di 6 anni faEdizione del 14 luglio 2018

Nei suoi scatti si coglie l’intensità della partecipazione collettiva, un atto di fede che è anche condivisione: il rito dell’esposizione del morto (con l’esorcizzazione della morte stessa), la veglia, il pianto, la disperazione e la consolazione.

Paolo Pellegrin (Roma 1964, vive a Ginevra) è a San Pietro nell’aprile 2005, durante i funerali di papa Giovanni Paolo II: l’apice della tensione emotiva viene raggiunta quando la massa diventa il singolo volto del fedele. La morte è un momento pubblico, esattamente come lo è – con tutto il dramma del prima e del dopo – la vita, la salvezza di quei migranti fotografati nel Mediterraneo il 27 luglio 2015.

Scatti che concludono il percorso espositivo di L’Italia di Magnum. Da Cartier-Bresson a Paolo Pellegrin, con cui vengono celebrati i settant’anni dell’agenzia Magnum Photos (fondata nel 1947 a New York da Henri Cartier-Bresson, Robert Capa, David Seymour, George Rodger e William Vandivert). Curata da Walter Guadagnini (catalogo Silvana Editoriale), nella tappa milanese è ospitata al Museo Diocesano Carlo Maria Martini (fino al 22 luglio).

L’autorevole fotoreporter, vincitore di innumerevoli premi internazionali tra cui dieci World Press Photo (tra ’94 e 2012), a cui nell’autunno di quest’anno sarà dedicata la prima antologica al Maxxi, si racconta ripercorrendo quei momenti unici che hanno segnato il suo percorso personale e professionale. «Il digitale ci ha regalato l’immediatezza, il poter esplorare la notte – spiega – Ma la fotografia analogica è un mestiere. Bisognava andare al di là dello sguardo, saper esporre una pellicola, svilupparla, trattare il negativo. Qualcosa che adesso non c’è più. Tutto questo non era semplicemente imparare la tecnica, c’era anche il pensiero, la conoscenza del proprio occhio, della pellicola, dello sviluppo, quindi del linguaggio che diventa pensiero».

Nella sua visione della professione di fotoreporter, qual è il compromesso tra l’essere eticamente responsabile della testimonianza e la ricerca estetica, pur mantenendo le distanze dall’estetizzazione del dolore?

È un’annosa questione. La fotografia, per esprimersi, usa strumenti formali e compositivi, quindi estetici.

Da una parte, c’è l’etica con i contenuti e dall’altra l’estetica che, con la forma, ci serve per trasmettere contenuti. L’etica di cui, in questo periodo, si parla tanto sui social – in maniera non corretta – non appartiene alla fotografia, ma al fotografo, all’uomo. È la somma del nostro vissuto, delle azioni, di chi siamo e tutto questo si applica alla fotografia.

Il compromesso: non so se esista una formula. Esiste l’etica dell’uomo che si trova di fronte a situazioni che sono spesso di disagio o, come diceva Sontag, di fronte alla sofferenza dell’altro. In questo caso ci si impegna nel cercare di trattare questa materia umana, così delicata e fragile, nel modo più rispettoso possibile. Ma ci sono infiniti casi. Ogni volta c’è un incontro che vuol dire, in ultima istanza, anche un incontro con se stessi.

A proposito di questo so, ad esempio, che non ci si abitua a vedere un’umanità in difficoltà. Nella mia pratica della fotografia diventa sempre più difficile trovare il giusto allineamento di cose che mi permettono di dire che è importante realizzare una certa immagine. Di solito c’entra la storia, l’idea che quella situazione vada ricordata, quindi l’uso della fotografia come testimonianza.

Paolo Pellegrin. Foto di Manuela De Leonardis

 

Accade soprattutto quando ci si scontra con il revisionismo storico…

Quello è l’esempio classico. La fotografia diventa il documento a cui si può far riferimento. C’è una parola inglese che la definisce bene: accountability.

Ha fotografato spesso la morte e il mistero che la avvolge, dichiarando che «la morte dell’altro è una perdita che appartiene a tutti»…

Sì, in qualche modo è così. Anche in questo contesto con mille distinguo. Se si immagina l’insieme di persone come un organismo, collegate come in realtà sono, viene da affermare che misteriosamente la singola morte ha un effetto sul tutto.

Il suo lavoro si colloca all’interno di una tradizione di fotogiornalismo. L’incontro con la fotografia è stato casuale, ai tempi in cui frequentava la facoltà di architettura…

Un altro mistero. Mi ritengo molto fortunato perché, al di là degli anni in cui ho frequentato la facoltà di architettura – sono figlio di architetti, ma non ero pienamente convinto di quella scelta – ero un giovane abbastanza tormentato, soprattutto dall’idea di trovare me stesso, la mia «voce». Nel cercare la direzione in cui mi faceva piacere esprimermi ho trovato il disegno, la grafica, gli scacchi. Mi iscrissi a quella «scuoletta» che aveva aperto proprio quell’anno, l’Istituto Italiano di Fotografia. Lì, dopo poco tempo – qualche settimana – c’è stata come un’epifania. Ho capito, non razionalmente, che la fotografia era la mia «direzione» e mi è cambiata la vita. Da perso, quale ero, sono diventato una macchina da guerra.

Si è orientato da subito verso l’umanità e il conflitto?

No, il conflitto è arrivato dopo. Ma mi è stato chiaro da subito che il mio interesse per la foto era il racconto dell’uomo. Non ho pensato mai alla fotografia di moda, allo still life o altro. Mi interessava la fotografia documentaristica che, in qualche modo, si rapportava alla storia. All’epoca erano micro storie, poi man mano sono diventate storie più grandi.

La guerra in Kosovo ha segnato una svolta nel suo lavoro…

Era un’epoca pre internet e mi ero imposto, grazie anche agli insegnamenti duri di un padre friulano, un training di anni in cui immaginavo la fotografia come una lingua straniera. Dovevo imparare ad esprimermi, a parlare e, per farlo, dovevo studiare la grammatica, la sintassi, il vocabolario.

Questo l’ho fatto in centinaia, migliaia di giorni, in cui di giorno scattavo e di sera sviluppavo e stampavo. In particolare, il momento della camera oscura è straordinario. Nel rivelarsi, la foto, rivela anche te stesso. A Roma andavo spesso alla Libreria Ferro di cavallo, riuscendo ogni tanto a comprarmi qualche libro. Avevo il mito della Magnum.

Quando sono andato in Kosovo avevo 35 anni, quindi ero relativamente maturo come fotografo. Lì, dopo oltre due anni, fu significativo l’incontro con Gilles Peress, a cui mostrai il mio lavoro che apprezzò. È solamente dopo il Kosovo che mi sono sentito pienamente fotografo. Da lì è iniziata un’altra storia, quella con Magnum.

Lei è un membro effettivo dell’agenzia fotogiornalistica dal 2005, ma è dal 2001 che inizia la collaborazione. Il mito è diventato un obiettivo?

Più che altro è stato un incontro, Non ho cercato direttamente Magnum, ma due suoi fotografi – Alex Webb e Susan Meiseles – mi chiesero di mandare un portfolio. Da solo, per pudore, forse, non l’avrei neanche fatto.

Parlando di responsabilità diretta nei confronti del soggetto, ha affermato che la fotografia è una sorta di «ponte emotivo» tra chi sta davanti e chi dietro l’obiettivo…

C’è un dialogo emotivo tra il fotografo e il soggetto, ma attraverso il lavoro – la fotografia – c’è anche un’altra identità che non sempre si conosce, il potenziale lettore. Si ha in mente il fatto che le fotografie saranno viste e, in certo senso, completate proprio in quel momento.

Incontrando coscienze e intelligenze diverse, le immagini vengono completate ogni volta in maniera diversa. Questa dinamica mi interessa molto, sia da fotografo che da lettore.

Cambiare il mondo sarebbe una richiesta troppo grande da fare alla fotografia, però siamo qui sicuramente per modificare noi stessi. Personalmente – grazie a quello che ho visto, vissuto, fotografato – sono cambiato enormemente.

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